Dal Vangelo secondo Marco

Marco 6, 1-6

1 Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. 2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”. Ed era per loro motivo di scandalo. 4Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. 5E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Cari Consorelle e Confratelli delle Misericordie, ​sono Carlo Miglietta, medico, biblista, laico, marito, papà e nonno (www.buonabibbiaatutti.it).
Anche oggi condivido con voi un breve pensiero di meditazione sul Vangelo, con particolare riferimento al tema della misericordia.

Il testo del Vangelo odierno (Mc 6,1-6) è l’unico, con Lc 13,33, in cui Gesù si autodefinisce profeta, Parola definitiva di Dio che annuncia la fedeltà di Dio al suo popolo: ma come tutti i profeti (Mt 23,37), Gesù viene respinto dai suoi. Egli è identificato come un modesto lavoratore qualsiasi: “Non è costui il carpentiere («tékton»)?”: “Senza troppo comodi sincretismi come fanno certi teologi americani del conservatorismo «misericordioso»…, se stiamo alla documentazione più attenta e fondata…, possiamo ottenere che… la categoria dei «tékton»…, si collocava… con una tendenza verso il basso… La famiglia di Gesù non era… da ricondurre alla nostra borghesia commerciale piccola o media che sia. Si trattava di un tenore di vita decoroso ma modesto” (G. F. Ravasi). E’ proprio lo scandalo di un Dio carpentiere che i suoi compaesani non accettano (Mc 6,1-6), ma che fa problema forse anche per gli stessi evangelisti. E’ curioso che Matteo, riprendendo il brano di Marco, iscriva invece Giuseppe alla professione di salariato: “Non é egli (Gesù) il figlio del carpentiere?” (Mt 13,55); e che Luca si rifugi in un asettico: “Costui non è il figlio di Giuseppe?” (Lc 4,22)…

Ma il lavoro, anche il più umile, è evento eminentemente cristologico: non può non stupire anche noi che il Figlio di Dio sia stato per quasi tutta la sua vita, trent’anni, un modesto lavoratore del suo tempo.

“L’eloquenza della vita di Cristo è inequivocabile: egli appartiene al «mondo del lavoro», ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre… Gesù Cristo nelle sue parabole sul regno di Dio si richiama costantemente al lavoro umano: al lavoro del pastore (per es. Gv 10,1-16), dell’agricoltore (Mc 12,1-12), del medico (Lc 4,23), del seminatore (Mc 4,1-9), del padrone di casa (Mt 13,52), del servo (Mt 24,45; Lc 12,42-48), dell’amministratore (Lc 16,1-8), del pescatore (Mt 13,47-50), del mercante (Mt 13,45s), dell’operaio (Mt 20,1-16). Parla pure dei diversi lavori delle donne (Mt 13,33; Lc 15,8s). Presenta l’apostolato a somiglianza del lavoro manuale dei mietitori (Mt 9,37; Gv 4,35-38) o dei pescatori (Mt 4,19). Inoltre, si riferisce anche al lavoro degli studiosi (Mt 13,52)” (Laborem exercens, n. 26).

Gesù ha assunto fino in fondo “la condizione di servo, e divenendo simile agli uomini” (Fil 2,7): non poteva quindi non prendere su di sé anche la dimensione del lavoro, anche con la sua misura di fatica e di morte. E rifiutò la tentazione satanica di diventare potente, di uscire dalla logica della finitudine (Mt 4,1-11). Anche la sua missione pubblica fu sotto il segno della “kénosis”, dello “spogliarsi-svuotarsi” (Fil 2,7): e le opere di giustizia da lui compiute si scontrarono contro la logica mondana del potere, e per questo Gesù sarà messo a morte.

Ma le opere di Gesù rivelano anche l’aspetto positivo del lavoro: esse sono segno di liberazione e di guarigione, costruiscono il Regno di Dio (Mt 11,4-6). Anzi, Gesù “porta a compimento l’opera del Padre” (Gv 4,34; 9,4).

Nella prima Chiesa, il lavoro è parte integrante della vita quotidiana: di molti apostoli conosciamo il mestiere: Matteo è esattore delle tasse (Mt 9,9); Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso detto Didimo sono pescatori (Mt 4,18-22; Gv 21,2), e non può non stupire che anche dopo la Resurrezione essi continuino a darsi alla pesca, e che Gesù appaia a loro nel loro contesto lavorativo (Gv 21,1-14).

Anche Paolo lavora con le sue mani, facendo il fabbricatore di tende (At 18,3), e se ne vanta (At 20,34). E per Paolo il lavoro diventa anche mezzo per vivere il comando nuovo della carità, per soccorrere “i deboli” (At 20,35), “chi si trova in necessità” (Ef 4,28).

Facendo obbedienza alla propria condizione creaturale, il credente dovrà abbracciare il lavoro, come Cristo, con i suoi aspetti negativi e positivi. Alla sequela del Crocifisso, il credente deve sapere, come Gesù, accettare la dimensione negativa del lavoro, la sua fatica e le sue frustrazioni: “Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce” (Laborem exercens, n. 27). Il grande criterio del lavoro è quindi la croce: il lavoro non sarà mai importante per i suoi risultati oggettivi, per l’onore che avrà sulla terra: ciò che conta è lo spirito di servizio, di amore, con cui viene svolto; quindi anche i lavori più umili agli occhi degli uomini possono essere i più preziosi di fronte al Signore. Il lavoro per il credente non sarà quindi, come per la logica di questo mondo, ricerca di autorealizzazione, di carriera, di promozione sociale, di successo: sarà “abodah”, servizio di Dio (Es 3,12) e dei fratelli, sull’esempio di colui che si è fatto “ebed IHWH”, il “Servo sofferente” (Is 42,1; 49,3; 52,13; 53,11). Il lavoro sarà prendere su di noi i nostri fratelli, sull’esempio di colui al quale “portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: «Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie»” (Mt 8,16-17; cfr Is 53,4).

Ma il lavoro è per il credente anche sequela di colui che è il Risorto: questo significa che il nostro lavoro, redento anch’esso da Cristo, ha anche riacquistato il senso originario, paradisiaco, voluto da Dio su di esso. Con il nostro lavoro dobbiamo “coltivare e custodire” il mondo (Gen 2,15), compartecipando all’opera creazionale di Dio stesso, di cui siamo “immagine” (Gen 1,27).

Il credente è chiamato a prolungare sulla terra l’opera di Gesù, ponendo gesti di liberazione, di maturazione, di costruzione del Regno. “L’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare questa terra, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo” (Gaudium et spes, n. 39).

Il lavoro è quindi una missione costitutiva dell’uomo che non diventerà alienazione o schiavitù solo se vissuto, alla sequela di Cristo Crocifisso e Risorto, come dono che ci fa cooperatori di Dio, per la realizzazione del suo Regno.

Buona Misericordia a tutti!

Carlo Miglietta

Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.