Quei semi lasciati da Goffredo Fofi

il: 

12 Luglio 2025

di: 

Goffredo Fofi

L’11 luglio, si è spento l’intellettuale Fofi, ma resterà sempre accesa la sua fiducia nel fare, nel poter essere strumenti di cambiamento

Fides, foedus, fiducia: tre parole che in latino condividono una radice comune. Parlano di legame, di patto, di credere. E forse è da qui che conviene partire per ricordare Goffredo Fofi, scomparso a 88 anni, uno degli intellettuali più lucidi, radicali e umani del Novecento.

Fofi non ha mai pensato che la cultura fosse un bene da gestire, ma una scommessa da rilanciare, una scommessa sull’altro. La sua è stata una vita spesa nella fiducia attiva: fiducia nelle persone, nelle periferie, nei giovani, nei poveri, nella capacità di ogni essere umano di crescere se accompagnato con rispetto e responsabilità. Non si tratta di ottimismo, ma di un atto politico e morale.

A diciassette anni era già in Sicilia, con Danilo Dolci, a battersi contro la miseria e la mafia con gli “scioperi al contrario”. Poi a Napoli, nella mensa dei bambini proletari. Ovunque, da allora, ha portato cultura come si porta il pane: non per sfamare gli appetiti dell’intellighenzia, ma per nutrire la coscienza collettiva. Ha formato generazioni di giovani con una parola semplice e ostinata: si può fare. È stato critico, editore, scrittore, fondatore di riviste come Quaderni piacentini, Linea d’ombra, La terra vista dalla luna. Ha lavorato a fianco degli esclusi e degli irregolari, con una fede laica incrollabile nella forza della cultura quando non serve il potere, ma serve le persone.

«Goffredo Fofi ha utilizzato la sua straordinaria intelligenza e la sua grande sensibilità per provare a costruire una cultura altra, dal volto umano. Questa è stata la sua missione, il sogno a cui ha dedicato la sua vita di uomo, di scrittore, e intellettuale», ricorda Lucia Capuzzi, direttrice del Festival della Missione e inviata di Avvenire. «Fofi voleva che la cultura fosse il risultato non del pensiero di qualche élite ma di un dialogo di tutti e tutte, a cui tutti potessero partecipare e che tutti potessero costruire. Per questo si è dedicato con slancio alla scuola e all’educazione, che era la sua grande passione. Ha seminato per tutta la vita e tanti semi sono nati e continueranno a nascere e renderanno la sua figura viva ancora per moltissimi anni».

È stato un disobbediente sistematico. Il suo motto? «Siamo qui per contraddire, non per compiacere». Ma non per amore della polemica: per amore della giustizia. Ha animato i luoghi dove la coscienza civile prende forma: scuole, redazioni, circoli, case editrici, riviste, comunità. Nel 2008 ha fondato, con Giulio Marcon, le Edizioni dell’Asino: libri poveri, pensati anche per chi si solito non ha voce. Fofi ha sempre scelto la compagnia dei non ascoltati. La sua vera patria erano le periferie, e i suoi concittadini gli ultimi della fila.

Era un laico che parlava ai credenti. Ha collaborato con Avvenire, raccontando figure come don Milani, don Tonino Bello, Dorothy Day. Ha saputo riconoscere nella spiritualità che diventa concretezza — scuola, accoglienza, riscatto — una forza viva del nostro tempo. Scriveva: «La parabola del seminatore è per me un riferimento politico: si semina senza sapere dove il seme cadrà». Ecco la sua fiducia: seminare anche quando non si sa chi raccoglierà. Credere che ogni parola, ogni gesto, ogni libro possa generare vita. La sua missione è stata questa: dare fiducia dove altri vedevano solo margine. Costruire senso, e non potere. Oggi che non c’è più, ci resta il suo metodo: attenzione, radicalità, inquietudine morale. E un’eredità viva: una fiducia operosa nel valore dell’altro. Anche quando nessuno ci scommette. In questo, è stato davvero un missionario. Laico, ma fedele a un’idea di giustizia. Seminatore di parole, di legami, di consapevolezza. Di fiducia, appunto.

Fonte e immagine

L’11 luglio, si è spento l’intellettuale Fofi, ma resterà sempre accesa la sua fiducia nel fare, nel poter essere strumenti di cambiamento

Fides, foedus, fiducia: tre parole che in latino condividono una radice comune. Parlano di legame, di patto, di credere. E forse è da qui che conviene partire per ricordare Goffredo Fofi, scomparso a 88 anni, uno degli intellettuali più lucidi, radicali e umani del Novecento.

Fofi non ha mai pensato che la cultura fosse un bene da gestire, ma una scommessa da rilanciare, una scommessa sull’altro. La sua è stata una vita spesa nella fiducia attiva: fiducia nelle persone, nelle periferie, nei giovani, nei poveri, nella capacità di ogni essere umano di crescere se accompagnato con rispetto e responsabilità. Non si tratta di ottimismo, ma di un atto politico e morale.

A diciassette anni era già in Sicilia, con Danilo Dolci, a battersi contro la miseria e la mafia con gli “scioperi al contrario”. Poi a Napoli, nella mensa dei bambini proletari. Ovunque, da allora, ha portato cultura come si porta il pane: non per sfamare gli appetiti dell’intellighenzia, ma per nutrire la coscienza collettiva. Ha formato generazioni di giovani con una parola semplice e ostinata: si può fare. È stato critico, editore, scrittore, fondatore di riviste come Quaderni piacentini, Linea d’ombra, La terra vista dalla luna. Ha lavorato a fianco degli esclusi e degli irregolari, con una fede laica incrollabile nella forza della cultura quando non serve il potere, ma serve le persone.

«Goffredo Fofi ha utilizzato la sua straordinaria intelligenza e la sua grande sensibilità per provare a costruire una cultura altra, dal volto umano. Questa è stata la sua missione, il sogno a cui ha dedicato la sua vita di uomo, di scrittore, e intellettuale», ricorda Lucia Capuzzi, direttrice del Festival della Missione e inviata di Avvenire. «Fofi voleva che la cultura fosse il risultato non del pensiero di qualche élite ma di un dialogo di tutti e tutte, a cui tutti potessero partecipare e che tutti potessero costruire. Per questo si è dedicato con slancio alla scuola e all’educazione, che era la sua grande passione. Ha seminato per tutta la vita e tanti semi sono nati e continueranno a nascere e renderanno la sua figura viva ancora per moltissimi anni».

È stato un disobbediente sistematico. Il suo motto? «Siamo qui per contraddire, non per compiacere». Ma non per amore della polemica: per amore della giustizia. Ha animato i luoghi dove la coscienza civile prende forma: scuole, redazioni, circoli, case editrici, riviste, comunità. Nel 2008 ha fondato, con Giulio Marcon, le Edizioni dell’Asino: libri poveri, pensati anche per chi si solito non ha voce. Fofi ha sempre scelto la compagnia dei non ascoltati. La sua vera patria erano le periferie, e i suoi concittadini gli ultimi della fila.

Era un laico che parlava ai credenti. Ha collaborato con Avvenire, raccontando figure come don Milani, don Tonino Bello, Dorothy Day. Ha saputo riconoscere nella spiritualità che diventa concretezza — scuola, accoglienza, riscatto — una forza viva del nostro tempo. Scriveva: «La parabola del seminatore è per me un riferimento politico: si semina senza sapere dove il seme cadrà». Ecco la sua fiducia: seminare anche quando non si sa chi raccoglierà. Credere che ogni parola, ogni gesto, ogni libro possa generare vita. La sua missione è stata questa: dare fiducia dove altri vedevano solo margine. Costruire senso, e non potere. Oggi che non c’è più, ci resta il suo metodo: attenzione, radicalità, inquietudine morale. E un’eredità viva: una fiducia operosa nel valore dell’altro. Anche quando nessuno ci scommette. In questo, è stato davvero un missionario. Laico, ma fedele a un’idea di giustizia. Seminatore di parole, di legami, di consapevolezza. Di fiducia, appunto.

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Goffredo Fofi

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