La plastica che avvelena l’Africa e il mondo

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1 Settembre 2025

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Inquinamento-plastica

Nella Giornata Mondiale del Creato, il nostro inviato per l’Africa Rodrigue ci parla della plastica, un veleno invisibile ma onnipresente

L’Africa, sconvolta dal fallimento di Ginevra nel siglare un trattato, chiede giustizia climatica

Sebbene il continente africano produca solo il 5% della plastica mondiale, oggi è il secondo più inquinato.

Dopo dieci giorni di intense trattative, durante il vertice tenutosi a Ginevra non è stato possibile raggiungere un consenso su un trattato globale contro l’inquinamento da plastica. Il rappresentante della Norvegia ha esclamato: «Non avremo un trattato qui a Ginevra». Un’ammissione di fallimento che illustra la frattura tra due schieramenti inconciliabili.

Due visioni del mondo si scontrano

I dibattiti hanno rivelato una netta frattura. Da un lato, i Paesi cosiddetti “ambiziosi”: Unione Europea, Canada, Australia, Africa, nazioni dell’America Latina, che chiedevano una netta riduzione della produzione mondiale di plastica. La loro argomentazione: questo materiale onnipresente minaccia la salute umana, soffoca gli oceani e indebolisce i sistemi alimentari.

Dall’altra parte, i produttori di petrolio e idrocarburi, principali fornitori di materie prime per la plastica, difendono i propri interessi economici vantando la redditività estrema del loro settore. Per loro è fuori discussione frenare un’industria che vale oltre 1.100 miliardi di dollari e rappresenta il 5% del commercio mondiale.

Il testo di compromesso, presentato alla vigilia della chiusura del vertice, conteneva ancora più di un centinaio di punti in sospeso. Per mancanza di tempo e soprattutto di volontà, le delegazioni non sono riuscite ad adottare un testo finale.

L’Africa alza la voce

In Africa, i danni sono visibili e le mobilitazioni crescenti. L’Uganda ha chiesto una nuova sessione di negoziati. Nel continente, la mobilitazione cresce. Dal 2024, Kenya, Nigeria, Sudafrica, Uganda e Zimbabwe hanno unito le forze in un progetto comune per limitare gli inquinanti organici derivati dalla plastica. Il Ruanda, figura di spicco di questa lotta, ha sostenuto un obiettivo ambizioso: ridurre del 40% la produzione di plastica entro il 2040. Una proposta respinta dai paesi produttori di petrolio.

Eppure l’urgenza è evidente. Nell’Africa subsahariana, l’uso della plastica dovrebbe aumentare di 6,5 volte entro il 2060, ancora più rapidamente che in India (5,5). Senza un’azione forte, il continente africano rischia di diventare il nuovo epicentro dell’inquinamento mondiale.

Un veleno invisibile ma onnipresente

L’inquinamento da plastica fa parte di una “tripla crisi planetaria”: cambiamento climatico, perdita di biodiversità e rifiuti tossici. Le cifre fanno girare la testa. Secondo l’UNCTAD, il 75% di tutta la plastica finisce nei rifiuti. La produzione mondiale ha raggiunto i 436 milioni di tonnellate nel 2023, parte delle quali finisce negli oceani contaminando pesci, uccelli e esseri umani. Solo meno del 10% viene riciclato.

A questo ritmo, i rifiuti plastici triplicheranno entro il 2060, superando il miliardo di tonnellate. L’industria alimentata dal petrolio dovrebbe generare da sola il 15% delle emissioni di gas serra in un quarto di secolo. Una bomba ecologica e climatica.

Ma al di là delle cifre, le conseguenze si vivono quotidianamente: microplastiche nell’aria, nell’acqua, negli alimenti. Le sostanze chimiche aggiunte alla plastica penetrano nell’organismo umano, aumentando il rischio di malattie croniche. Si moltiplicano gli allarmi scientifici sui loro effetti a lungo termine sulla salute umana, in particolare sui bambini.

Una lotta lungi dall’essere conclusa

Di fronte a questa situazione di stallo, la società civile continua a mobilitarsi. ONG, ricercatori e cittadini chiedono un cambiamento radicale: ridurre la produzione alla fonte, sviluppare l’economia circolare, promuovere alternative sostenibili. I paesi africani e insulari, tra i più colpiti, chiedono un impegno fermo da parte della comunità internazionale.

Rimane una domanda: la comunità internazionale sarà in grado di superare gli interessi economici e rispondere a un’emergenza planetaria?
Le parole di Papa Francesco già mettevano in discussione questo tipo di modello economico, invitandoci a prenderci cura della “nostra casa comune”: “La precarietà della nostra casa comune è dovuta principalmente a un modello economico che è stato seguito per molto tempo. Si tratta di un modello vorace, orientato al profitto, con un orizzonte limitato e basato sull’illusione di una crescita illimitata. Sebbene siamo spesso testimoni del suo impatto disastroso sulla natura e sulla vita delle persone, siamo ancora riluttanti a cambiare».

Immagine

  • Foto di Rodrigue Bidubula

Nella Giornata Mondiale del Creato, il nostro inviato per l’Africa Rodrigue ci parla della plastica, un veleno invisibile ma onnipresente

L’Africa, sconvolta dal fallimento di Ginevra nel siglare un trattato, chiede giustizia climatica

Sebbene il continente africano produca solo il 5% della plastica mondiale, oggi è il secondo più inquinato.

Dopo dieci giorni di intense trattative, durante il vertice tenutosi a Ginevra non è stato possibile raggiungere un consenso su un trattato globale contro l’inquinamento da plastica. Il rappresentante della Norvegia ha esclamato: «Non avremo un trattato qui a Ginevra». Un’ammissione di fallimento che illustra la frattura tra due schieramenti inconciliabili.

Due visioni del mondo si scontrano

I dibattiti hanno rivelato una netta frattura. Da un lato, i Paesi cosiddetti “ambiziosi”: Unione Europea, Canada, Australia, Africa, nazioni dell’America Latina, che chiedevano una netta riduzione della produzione mondiale di plastica. La loro argomentazione: questo materiale onnipresente minaccia la salute umana, soffoca gli oceani e indebolisce i sistemi alimentari.

Dall’altra parte, i produttori di petrolio e idrocarburi, principali fornitori di materie prime per la plastica, difendono i propri interessi economici vantando la redditività estrema del loro settore. Per loro è fuori discussione frenare un’industria che vale oltre 1.100 miliardi di dollari e rappresenta il 5% del commercio mondiale.

Il testo di compromesso, presentato alla vigilia della chiusura del vertice, conteneva ancora più di un centinaio di punti in sospeso. Per mancanza di tempo e soprattutto di volontà, le delegazioni non sono riuscite ad adottare un testo finale.

L’Africa alza la voce

In Africa, i danni sono visibili e le mobilitazioni crescenti. L’Uganda ha chiesto una nuova sessione di negoziati. Nel continente, la mobilitazione cresce. Dal 2024, Kenya, Nigeria, Sudafrica, Uganda e Zimbabwe hanno unito le forze in un progetto comune per limitare gli inquinanti organici derivati dalla plastica. Il Ruanda, figura di spicco di questa lotta, ha sostenuto un obiettivo ambizioso: ridurre del 40% la produzione di plastica entro il 2040. Una proposta respinta dai paesi produttori di petrolio.

Eppure l’urgenza è evidente. Nell’Africa subsahariana, l’uso della plastica dovrebbe aumentare di 6,5 volte entro il 2060, ancora più rapidamente che in India (5,5). Senza un’azione forte, il continente africano rischia di diventare il nuovo epicentro dell’inquinamento mondiale.

Un veleno invisibile ma onnipresente

L’inquinamento da plastica fa parte di una “tripla crisi planetaria”: cambiamento climatico, perdita di biodiversità e rifiuti tossici. Le cifre fanno girare la testa. Secondo l’UNCTAD, il 75% di tutta la plastica finisce nei rifiuti. La produzione mondiale ha raggiunto i 436 milioni di tonnellate nel 2023, parte delle quali finisce negli oceani contaminando pesci, uccelli e esseri umani. Solo meno del 10% viene riciclato.

A questo ritmo, i rifiuti plastici triplicheranno entro il 2060, superando il miliardo di tonnellate. L’industria alimentata dal petrolio dovrebbe generare da sola il 15% delle emissioni di gas serra in un quarto di secolo. Una bomba ecologica e climatica.

Ma al di là delle cifre, le conseguenze si vivono quotidianamente: microplastiche nell’aria, nell’acqua, negli alimenti. Le sostanze chimiche aggiunte alla plastica penetrano nell’organismo umano, aumentando il rischio di malattie croniche. Si moltiplicano gli allarmi scientifici sui loro effetti a lungo termine sulla salute umana, in particolare sui bambini.

Una lotta lungi dall’essere conclusa

Di fronte a questa situazione di stallo, la società civile continua a mobilitarsi. ONG, ricercatori e cittadini chiedono un cambiamento radicale: ridurre la produzione alla fonte, sviluppare l’economia circolare, promuovere alternative sostenibili. I paesi africani e insulari, tra i più colpiti, chiedono un impegno fermo da parte della comunità internazionale.

Rimane una domanda: la comunità internazionale sarà in grado di superare gli interessi economici e rispondere a un’emergenza planetaria?
Le parole di Papa Francesco già mettevano in discussione questo tipo di modello economico, invitandoci a prenderci cura della “nostra casa comune”: “La precarietà della nostra casa comune è dovuta principalmente a un modello economico che è stato seguito per molto tempo. Si tratta di un modello vorace, orientato al profitto, con un orizzonte limitato e basato sull’illusione di una crescita illimitata. Sebbene siamo spesso testimoni del suo impatto disastroso sulla natura e sulla vita delle persone, siamo ancora riluttanti a cambiare».

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  • Foto di Rodrigue Bidubula
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