Speranza, verità e rispetto
Un articolo di Arianna Cozzolino, segnalato da “Laborcare Journal”, ci fa riflettere sui temi del rispetto e della speranza
(di Arianna Cozzolino)
L’anno che ci ha appena lasciato ha cercato qualche consolazione dai luttuosi eventi mondiali in due parole, evocate l’una dall’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani e l’altra da Papa Francesco, con particolare riferimento all’apertura del Giubileo: “rispetto” e “speranza”.
Vorrei sottolineare il nesso profondo che oggi vedo più chiaramente tra le due parole, contestualizzate in ambito sanitario, riprendendo una riflessione espressa in un articolo, scritto quasi dieci anni fa, sul tema “Speranza e Malati Terminali: un ossimoro?” .
In quell’articolo esprimevo il sentimento di sconcerto – e anche di rabbia – provato ogni volta che vedevo negare la verità ai malati con la “ragione” di non ucciderne la speranza, come se, appunto, malato terminale e speranza non potessero essere accostati in quanto distanti, incompatibili, impronunciabili nella stessa frase.
Ne “L’ amore al tempo del colera” pubblicato proprio quando io stavo compiendo le mie scelte di far parte del mondo delle cure palliative, avevo trovato una proposizione che oggi più che mai continuo a sentire mia:” Ognuno è padrone della propria morte”, diceva l’anziano medico Juvenal Urbino,” e l’unica cosa che possiamo fare, arrivato il momento, è aiutarlo a morire senza paura né dolore”.
Ho sentito questa affermazione come un antidoto all’abbandono riservato a coloro per cui si dice “non c’è più niente da fare”. Esprimeva, a mio modo di vedere, il concetto di presa in carico globale , fino alla fine, di un essere umano, senza negazione dell’esistenza e dell’ evidenza di malattia e morte, laddove negare diagnosi e/o prognosi a chi è stato affidato alle nostre cure, farsi complici della “congiura del silenzio”, a volte richiesta da familiari smarriti e spaventati, significa proprio negare la realtà appellandosi ad un concetto fragile e falso di speranza.
Quanto descritto nell’articolo a cui mi riferivo all’inizio accade ancora oggi, col risultato che negazione o sovrastima della prognosi causano solo una peggiore qualità di morte e un maggior numero di morti in ospedale e nelle terapie intensive.
Per evitare la fatica, l’imbarazzo, la paura e l’incapacità di parlare di morte ci si rivolge molto più facilmente alla tecnica. Ma, come dice Umberto Galimberti in “Psiche e Techne” riferendosi al mito, la “cieca speranza” che Prometeo, assieme alla tecnica, dona all’uomo è l’idea di una vita non più regolata sul ritmo biologico di nascita, crescita, maturità, morte ma da una rottura di questo ciclo attraverso la tecnica.
Quella “cieca speranza” significa guardare al concetto di speranza, in realtà dinamico e multidimensionale, attraverso una lente opaca e piatta, che cerca solo la guarigione fisica oppure, più spesso, cerca di sfuggire a tutto quello che affrontare una comunicazione aperta con una persona ammalata significa, compresa la capacità di farsi carico di temi e scelte di grande complessità ed incertezza e di riflettere sul tema del “limite” delle cure. Così facendo si nega la vera centralità del malato, che può esprimersi solo in scelte orientate da proporzionalità clinica coniugate con una liceità etica, ineludibile valutazione di ciò che ha senso fare secondo la prospettiva dell’interessato, compiutamente informato; la base del rispetto di una persona.
Diversamente, siamo ad un modello che si rifà a quello rappresentato dal famoso dr. House che, nella serie di cui era protagonista, diceva di essere diventato medico per curare le malattie, non i malati. Un seguace del Prometeo di Eschilo in cui la Tecnica, separata dalla Verità diventa solo Hybris cioè tracotanza, prevaricazione, ancora una volta mancanza di rispetto.
Parliamo da molto tempo di “umanizzazione delle cure” ma la situazione attuale con le scarse risorse, i tempi imposti sempre più ristretti e la fatica degli operatori sanitari ha portato ad ulteriore detrimento del tempo da dedicare all’individuo, che rimane così relegato alla dimensione di “malato”, espunto dalla concezione più ampia di “persona”, come se la dimensione della relazione di cura fosse ancora stratificata secondo un particolare concetto di priorità, fondamentale nella parte clinica, secondaria ed accessoria in quella relazionale, etica, spirituale: se c’è tempo bene, sennò le si salta.
Questo aspetto è stato di marcata evidenza durante il periodo della pandemia e proprio su questo tema rimando, fra le tante possibilità, ad uno studio effettuato dal Comitato per l’Etica di Fine Vita (CEF) che richiama la condizione di cui sopra esprimendo in conclusione un dubbio: “Non è chiaro se questo (inadeguate risposte ai bisogni psicologici, relazionali e spirituali che non hanno ricevuto la stessa attenzione di quelli clinici) sia avvenuto perché in situazione di emergenza gli elementi legati alla persona non sono stati considerati prioritari, oppure perché permane la convinzione che siano solo gli aspetti clinici a rientrare nella specifica competenza degli operatori”.
A contraddire una possibile visione riduzionista di una cura basata solo sulla “tecnica” si contrappongono le cure palliative, quell’approccio finalizzato alla qualità di vita dei malati e delle loro famiglie che si fa carico dei problemi fisici, psicosociali e spirituali.
Come stanno le cure palliative oggi secondo una indagine IPSOS?
Otto cittadini su dieci sanno cosa siano le CP; in particolare il 54% sa bene o abbastanza cosa sono, però 1 cittadino su 5 pensa siano cure «inutili», «naturali» oppure alternative alla medicina tradizionale e il 57 % non sa se siano attive sul proprio territorio.
Sempre secondo questa indagine il 20% dei medici pensa ancora che il criterio guida per la scelta sia la sola vicinanza con la morte. La pianificazione condivisa delle cure (PCC) è considerata un bene per la metà dei medici che , però, troppo spesso non hanno le parole per poter parlare di prognosi e morte.
Queste evidenze confermano e ridescrivono quanto già da tempo presente in letteratura: ”Il carattere del medico e l’abilità a creare relazioni personali influenzano la capacità del malato di affrontare la situazione e le informazioni date”.
Ma se i medici per primi non hanno formazione e quindi parole per comunicare col paziente, se le competenze etiche sono deboli e sottovalutate, se ancora oggi troppi non sanno della esistenza di una legge fondamentale come la 219/2017 che parla di consenso, pianificazione condivisa, disposizioni anticipate, di quali cure e di quale speranza potremmo mai esser veicoli e promotori?
Dovremmo essere consapevoli che la speranza, in realtà, è presente in tutti gli stadi della vita, compreso il processo del morire. È quello che consente alle persone di rivedere la propria storia di vita cercandone un senso e di pensare alla morte senza arrivare ad una profonda disperazione. Per i malati al termine della vita la speranza può essere sollievo dal dolore, potersi sentire vivi ogni giorno; può declinarsi in speranza per i propri cari, in speranza di morire in pace e di pensare se esista una vita dopo la morte, soprattutto se ci si riconosce e, quindi, si ha bisogno dei conforti di una religione.
Quale di queste possibili speranze elencate, negate attraverso il furto esercitato con una menzogna od omissione, ha meno valore della illusione che un ennesimo trattamento possa cambiare radicalmente una situazione compromessa in modo evidente? Quando sarà mai ora di smettere di essere dei Dr. House per occuparsi, assieme alla malattia anche del malato?
In uno scritto, a mio avviso illuminato, C.A Defanti si domanda se la veracità non distrugga la speranza. La risposta data è che la verità arreca di certo dolore ma distrugge solo la speranza ingannevole e la sostituisce con la promessa di un aiuto vero lungo il suo iter finito nel tempo, realizzando la promessa delle cure palliative.
Ogni malato ha diritto a questa verità, se lo vuole.
Tutto questo riguarda, ovviamente, anche i familiari o, in generale, i cari coinvolti: si tratta di aiutare tutti nella ricerca di senso, del loro senso. Si tratta di aiutare tutti a realizzare obiettivi realistici invece che rimandare questi obiettivi ad un tempo che non ci sarà.
Le cure palliative possono creare occasioni affinché questo avvenga , affinché ogni persona sia accompagnata e non lasciata sola nella disperazione.
In questo processo, la “consolazione” – e il suo rapporto con la verità – descritta da Sgalambro, per cui il consolatore non prova che assoluta indifferenza nei riguardi dell’afflitto ma proprio grazie a questa indifferenza rende possibile il passaggio dalla compassione alla consolazione («A me non importa nulla di te, ma solo così ti posso consolare») si associa alle parole di Seneca nella “Consolazione alla madre Elvia” dove viene scritto:
“D’altra parte, benché́ consultassi tutte le opere degli scrittori più famosi, composte per contenere e mitigare i dolori, non trovavo l’esempio di nessuno che avesse consolato i suoi di un dolore per il quale egli stesso era compianto”.
Ed ecco, allora, che i consolatori, quelli che possono sostenere verità, vicinanza e speranza, sono gli estranei, quelli che non ti vogliono bene, ma fanno bene il loro lavoro, e poi sanno ritirarsi.
Chiudo con le parole del Presidente Mattarella, pronunciate alla fine del 2024, nel messaggio di fine anno, che coniugano , ancora una volta, a mio avviso, speranza e rispetto:
“La speranza siamo noi. Il nostro impegno. La nostra libertà. Le nostre scelte”.
Perché senza verità , presupposto dell’eticità del comportamento che voglia rispettare la centralità del malato, non c’è rispetto, non c’è libertà e quindi non ci sono scelte: non rimane speranza.
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