Letture: At 12,1-11; 2 Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19
PIETRO
Nel Vangelo di Matteo si dice che la Chiesa sarà fondata su Pietro, a cui vengono assegnati “le chiavi del regno dei cieli” e il potere di “legare o sciogliere” (Mt 16,18-19).
Notiamo come Pietro sia chiamato “bar Jona”, “figlio di Giona”, in lingua aramaica, anche nel contesto del brano che è in greco: è curioso notare che invece nel quarto Vangelo Pietro non è “figlio di Giona”, bensì “figlio di Giovanni” (Gv 1,42). Forse Matteo, attribuendo al profeta Giona la paternità di Pietro, vuole dare all’affermazione di quest’ultimo una rilevanza profetica, “di un veggente apocalittico, reso degno da Dio di vedere chi sia il Figlio dell’uomo” (M. Nobile).
La missione di Simone è poi delineata con tre metafore: quella della pietra, quella delle chiavi e dalla frase “legare-sciogliere”.
Il cambio del nome, nella Bibbia, indica sempre una vocazione particolare. Gesù fa un gioco di parole, dicendo a Simone che d’ora in poi si chiamerà Pietro. Noi siamo ormai abituati ad usare correntemente questo nome proprio, e abbiamo perso la novità e l’originalità di questa “invenzione” di Gesù. In aramaico è più immediato coglierne il significato, perché “kepha”, “la pietra”, è maschile. Il Vangelo usa quindi un neologismo per indicare la funzione di Simone: egli sarà “la pietra”, la roccia su cui Gesù costruirà l’edificio della sua “ekklesìa”. Forse sarebbe più intuitivo per gli inglesi equiparare il nuovo nome di Simone non tanto a “Peter” quanto a “Rocky”.
La figura della “pietra” o della “roccia”, in ebraico “sùr”, è nell’Antico Testamento spesso riferita a Dio: “Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è roccia di difesa, se non il nostro Dio?” (Sl 18,32; 62,7; 73,26…). La traduzione più precisa non sarebbe: “Tu sei «Pietra»”, ma: “Tu sei «Fortezza inespugnabile», «Rupe di salvezza»”. Pietro è dato alla Chiesa come un dono di sicurezza, di difesa, come promessa di stabilità e vittoria. E il racconto della sua prodigiosa liberazione dal carcere, nella Prima Lettura (At 12,1-11), sottolinea la particolare protezione che Dio gli assicura.
Il tema delle chiavi è tipicamente biblico (Is 22,20-24), e indica quindi gli ampi poteri che Pietro avrà sull’accesso al Regno, le sue amplissime facoltà: e garantisce che ciò che Pietro deciderà avrà una corrispondenza anche a livello di Dio stesso.
Il brano è “una tradizione prematteana che Matteo ha inserito nel proprio testo” (D. J. Harrington). É quindi molto antico, e probabilmente riferisce fedelmente il dialogo tra Gesù e Pietro.
PAOLO
Paolo era della tribù di Beniamino, quella che aveva dato il re Saul, che portava lo stesso nome di Paolo: “domandato a Dio”; tribù di triste fama, sterminata dalle altre per la violenza fatta alla moglie di un levita (Gdc 19), di cui scampò solo un piccolo gruppo nascostosi in foresta. Ebreo della diaspora, Paolo parlava greco pur avendo un nome di origine latina, peraltro derivato per assonanza dall’originario ebraico Saul/Saulos, ed era insignito della cittadinanza romana (At 22,25-28). Paolo appare quindi collocato sulla frontiera di tre culture diverse: romana, greca, ebraica, e forse anche per questo era portato a una visione universalistica, al dialogo tra le civiltà, all’inculturazione del Vangelo.
La trasformazione della vita di Paolo avvenuta sulla via di Damasco, da persecutore della Chiesa a credente entusiasta, non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale, ma dell’incontro con Gesù.
La conversione di Paolo coincide con la sua vocazione all’apostolato. Non è possibile incontrare Gesù senza sentire l’esigenza di gridare al mondo la gioia sperimentata: “Predicare il vangelo è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9,16). L’attività apostolica di Paolo ha del portentoso, soprattutto se si considera che egli fu sempre afflitto da una malattia cronica particolarmente fastidiosa (Gal 4,13-15). È stato calcolato che percorse a piedi 7.800 Km e altri 9.000 in mare. Il mondo intero allora conosciuto fu teatro della sua predicazione. Egli non solo fondava nuove comunità cristiane, ma le accompagnava nella crescita pur da lontano anche mandando a loro le sue famose Epistole. Paolo si è dedicato all’annuncio del Vangelo a prezzo di immense sofferenze (2 Cor 11,21-28), ma non si è mai scoraggiato: nella Seconda Lettura (2 Tm 4,6-8.17-18) afferma: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone”.
Un gigante della Fede, innamorato di Gesù, appassionato della sua Parola, infaticabile annunciatore del Vangelo, Apostolo senza risparmio.
Letture: At 12,1-11; 2 Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19
PIETRO
Nel Vangelo di Matteo si dice che la Chiesa sarà fondata su Pietro, a cui vengono assegnati “le chiavi del regno dei cieli” e il potere di “legare o sciogliere” (Mt 16,18-19).
Notiamo come Pietro sia chiamato “bar Jona”, “figlio di Giona”, in lingua aramaica, anche nel contesto del brano che è in greco: è curioso notare che invece nel quarto Vangelo Pietro non è “figlio di Giona”, bensì “figlio di Giovanni” (Gv 1,42). Forse Matteo, attribuendo al profeta Giona la paternità di Pietro, vuole dare all’affermazione di quest’ultimo una rilevanza profetica, “di un veggente apocalittico, reso degno da Dio di vedere chi sia il Figlio dell’uomo” (M. Nobile).
La missione di Simone è poi delineata con tre metafore: quella della pietra, quella delle chiavi e dalla frase “legare-sciogliere”.
Il cambio del nome, nella Bibbia, indica sempre una vocazione particolare. Gesù fa un gioco di parole, dicendo a Simone che d’ora in poi si chiamerà Pietro. Noi siamo ormai abituati ad usare correntemente questo nome proprio, e abbiamo perso la novità e l’originalità di questa “invenzione” di Gesù. In aramaico è più immediato coglierne il significato, perché “kepha”, “la pietra”, è maschile. Il Vangelo usa quindi un neologismo per indicare la funzione di Simone: egli sarà “la pietra”, la roccia su cui Gesù costruirà l’edificio della sua “ekklesìa”. Forse sarebbe più intuitivo per gli inglesi equiparare il nuovo nome di Simone non tanto a “Peter” quanto a “Rocky”.
La figura della “pietra” o della “roccia”, in ebraico “sùr”, è nell’Antico Testamento spesso riferita a Dio: “Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è roccia di difesa, se non il nostro Dio?” (Sl 18,32; 62,7; 73,26…). La traduzione più precisa non sarebbe: “Tu sei «Pietra»”, ma: “Tu sei «Fortezza inespugnabile», «Rupe di salvezza»”. Pietro è dato alla Chiesa come un dono di sicurezza, di difesa, come promessa di stabilità e vittoria. E il racconto della sua prodigiosa liberazione dal carcere, nella Prima Lettura (At 12,1-11), sottolinea la particolare protezione che Dio gli assicura.
Il tema delle chiavi è tipicamente biblico (Is 22,20-24), e indica quindi gli ampi poteri che Pietro avrà sull’accesso al Regno, le sue amplissime facoltà: e garantisce che ciò che Pietro deciderà avrà una corrispondenza anche a livello di Dio stesso.
Il brano è “una tradizione prematteana che Matteo ha inserito nel proprio testo” (D. J. Harrington). É quindi molto antico, e probabilmente riferisce fedelmente il dialogo tra Gesù e Pietro.
PAOLO
Paolo era della tribù di Beniamino, quella che aveva dato il re Saul, che portava lo stesso nome di Paolo: “domandato a Dio”; tribù di triste fama, sterminata dalle altre per la violenza fatta alla moglie di un levita (Gdc 19), di cui scampò solo un piccolo gruppo nascostosi in foresta. Ebreo della diaspora, Paolo parlava greco pur avendo un nome di origine latina, peraltro derivato per assonanza dall’originario ebraico Saul/Saulos, ed era insignito della cittadinanza romana (At 22,25-28). Paolo appare quindi collocato sulla frontiera di tre culture diverse: romana, greca, ebraica, e forse anche per questo era portato a una visione universalistica, al dialogo tra le civiltà, all’inculturazione del Vangelo.
La trasformazione della vita di Paolo avvenuta sulla via di Damasco, da persecutore della Chiesa a credente entusiasta, non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale, ma dell’incontro con Gesù.
La conversione di Paolo coincide con la sua vocazione all’apostolato. Non è possibile incontrare Gesù senza sentire l’esigenza di gridare al mondo la gioia sperimentata: “Predicare il vangelo è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9,16). L’attività apostolica di Paolo ha del portentoso, soprattutto se si considera che egli fu sempre afflitto da una malattia cronica particolarmente fastidiosa (Gal 4,13-15). È stato calcolato che percorse a piedi 7.800 Km e altri 9.000 in mare. Il mondo intero allora conosciuto fu teatro della sua predicazione. Egli non solo fondava nuove comunità cristiane, ma le accompagnava nella crescita pur da lontano anche mandando a loro le sue famose Epistole. Paolo si è dedicato all’annuncio del Vangelo a prezzo di immense sofferenze (2 Cor 11,21-28), ma non si è mai scoraggiato: nella Seconda Lettura (2 Tm 4,6-8.17-18) afferma: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone”.
Un gigante della Fede, innamorato di Gesù, appassionato della sua Parola, infaticabile annunciatore del Vangelo, Apostolo senza risparmio.
Santi Pietro e Paolo Apostoli
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Letture: At 12,1-11; 2 Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19
PIETRO
Nel Vangelo di Matteo si dice che la Chiesa sarà fondata su Pietro, a cui vengono assegnati “le chiavi del regno dei cieli” e il potere di “legare o sciogliere” (Mt 16,18-19).
Notiamo come Pietro sia chiamato “bar Jona”, “figlio di Giona”, in lingua aramaica, anche nel contesto del brano che è in greco: è curioso notare che invece nel quarto Vangelo Pietro non è “figlio di Giona”, bensì “figlio di Giovanni” (Gv 1,42). Forse Matteo, attribuendo al profeta Giona la paternità di Pietro, vuole dare all’affermazione di quest’ultimo una rilevanza profetica, “di un veggente apocalittico, reso degno da Dio di vedere chi sia il Figlio dell’uomo” (M. Nobile).
La missione di Simone è poi delineata con tre metafore: quella della pietra, quella delle chiavi e dalla frase “legare-sciogliere”.
Il cambio del nome, nella Bibbia, indica sempre una vocazione particolare. Gesù fa un gioco di parole, dicendo a Simone che d’ora in poi si chiamerà Pietro. Noi siamo ormai abituati ad usare correntemente questo nome proprio, e abbiamo perso la novità e l’originalità di questa “invenzione” di Gesù. In aramaico è più immediato coglierne il significato, perché “kepha”, “la pietra”, è maschile. Il Vangelo usa quindi un neologismo per indicare la funzione di Simone: egli sarà “la pietra”, la roccia su cui Gesù costruirà l’edificio della sua “ekklesìa”. Forse sarebbe più intuitivo per gli inglesi equiparare il nuovo nome di Simone non tanto a “Peter” quanto a “Rocky”.
La figura della “pietra” o della “roccia”, in ebraico “sùr”, è nell’Antico Testamento spesso riferita a Dio: “Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è roccia di difesa, se non il nostro Dio?” (Sl 18,32; 62,7; 73,26…). La traduzione più precisa non sarebbe: “Tu sei «Pietra»”, ma: “Tu sei «Fortezza inespugnabile», «Rupe di salvezza»”. Pietro è dato alla Chiesa come un dono di sicurezza, di difesa, come promessa di stabilità e vittoria. E il racconto della sua prodigiosa liberazione dal carcere, nella Prima Lettura (At 12,1-11), sottolinea la particolare protezione che Dio gli assicura.
Il tema delle chiavi è tipicamente biblico (Is 22,20-24), e indica quindi gli ampi poteri che Pietro avrà sull’accesso al Regno, le sue amplissime facoltà: e garantisce che ciò che Pietro deciderà avrà una corrispondenza anche a livello di Dio stesso.
Il brano è “una tradizione prematteana che Matteo ha inserito nel proprio testo” (D. J. Harrington). É quindi molto antico, e probabilmente riferisce fedelmente il dialogo tra Gesù e Pietro.
PAOLO
Paolo era della tribù di Beniamino, quella che aveva dato il re Saul, che portava lo stesso nome di Paolo: “domandato a Dio”; tribù di triste fama, sterminata dalle altre per la violenza fatta alla moglie di un levita (Gdc 19), di cui scampò solo un piccolo gruppo nascostosi in foresta. Ebreo della diaspora, Paolo parlava greco pur avendo un nome di origine latina, peraltro derivato per assonanza dall’originario ebraico Saul/Saulos, ed era insignito della cittadinanza romana (At 22,25-28). Paolo appare quindi collocato sulla frontiera di tre culture diverse: romana, greca, ebraica, e forse anche per questo era portato a una visione universalistica, al dialogo tra le civiltà, all’inculturazione del Vangelo.
La trasformazione della vita di Paolo avvenuta sulla via di Damasco, da persecutore della Chiesa a credente entusiasta, non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale, ma dell’incontro con Gesù.
La conversione di Paolo coincide con la sua vocazione all’apostolato. Non è possibile incontrare Gesù senza sentire l’esigenza di gridare al mondo la gioia sperimentata: “Predicare il vangelo è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9,16). L’attività apostolica di Paolo ha del portentoso, soprattutto se si considera che egli fu sempre afflitto da una malattia cronica particolarmente fastidiosa (Gal 4,13-15). È stato calcolato che percorse a piedi 7.800 Km e altri 9.000 in mare. Il mondo intero allora conosciuto fu teatro della sua predicazione. Egli non solo fondava nuove comunità cristiane, ma le accompagnava nella crescita pur da lontano anche mandando a loro le sue famose Epistole. Paolo si è dedicato all’annuncio del Vangelo a prezzo di immense sofferenze (2 Cor 11,21-28), ma non si è mai scoraggiato: nella Seconda Lettura (2 Tm 4,6-8.17-18) afferma: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone”.
Un gigante della Fede, innamorato di Gesù, appassionato della sua Parola, infaticabile annunciatore del Vangelo, Apostolo senza risparmio.
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PIETRO
Nel Vangelo di Matteo si dice che la Chiesa sarà fondata su Pietro, a cui vengono assegnati “le chiavi del regno dei cieli” e il potere di “legare o sciogliere” (Mt 16,18-19).
Notiamo come Pietro sia chiamato “bar Jona”, “figlio di Giona”, in lingua aramaica, anche nel contesto del brano che è in greco: è curioso notare che invece nel quarto Vangelo Pietro non è “figlio di Giona”, bensì “figlio di Giovanni” (Gv 1,42). Forse Matteo, attribuendo al profeta Giona la paternità di Pietro, vuole dare all’affermazione di quest’ultimo una rilevanza profetica, “di un veggente apocalittico, reso degno da Dio di vedere chi sia il Figlio dell’uomo” (M. Nobile).
La missione di Simone è poi delineata con tre metafore: quella della pietra, quella delle chiavi e dalla frase “legare-sciogliere”.
Il cambio del nome, nella Bibbia, indica sempre una vocazione particolare. Gesù fa un gioco di parole, dicendo a Simone che d’ora in poi si chiamerà Pietro. Noi siamo ormai abituati ad usare correntemente questo nome proprio, e abbiamo perso la novità e l’originalità di questa “invenzione” di Gesù. In aramaico è più immediato coglierne il significato, perché “kepha”, “la pietra”, è maschile. Il Vangelo usa quindi un neologismo per indicare la funzione di Simone: egli sarà “la pietra”, la roccia su cui Gesù costruirà l’edificio della sua “ekklesìa”. Forse sarebbe più intuitivo per gli inglesi equiparare il nuovo nome di Simone non tanto a “Peter” quanto a “Rocky”.
La figura della “pietra” o della “roccia”, in ebraico “sùr”, è nell’Antico Testamento spesso riferita a Dio: “Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è roccia di difesa, se non il nostro Dio?” (Sl 18,32; 62,7; 73,26…). La traduzione più precisa non sarebbe: “Tu sei «Pietra»”, ma: “Tu sei «Fortezza inespugnabile», «Rupe di salvezza»”. Pietro è dato alla Chiesa come un dono di sicurezza, di difesa, come promessa di stabilità e vittoria. E il racconto della sua prodigiosa liberazione dal carcere, nella Prima Lettura (At 12,1-11), sottolinea la particolare protezione che Dio gli assicura.
Il tema delle chiavi è tipicamente biblico (Is 22,20-24), e indica quindi gli ampi poteri che Pietro avrà sull’accesso al Regno, le sue amplissime facoltà: e garantisce che ciò che Pietro deciderà avrà una corrispondenza anche a livello di Dio stesso.
Il brano è “una tradizione prematteana che Matteo ha inserito nel proprio testo” (D. J. Harrington). É quindi molto antico, e probabilmente riferisce fedelmente il dialogo tra Gesù e Pietro.
PAOLO
Paolo era della tribù di Beniamino, quella che aveva dato il re Saul, che portava lo stesso nome di Paolo: “domandato a Dio”; tribù di triste fama, sterminata dalle altre per la violenza fatta alla moglie di un levita (Gdc 19), di cui scampò solo un piccolo gruppo nascostosi in foresta. Ebreo della diaspora, Paolo parlava greco pur avendo un nome di origine latina, peraltro derivato per assonanza dall’originario ebraico Saul/Saulos, ed era insignito della cittadinanza romana (At 22,25-28). Paolo appare quindi collocato sulla frontiera di tre culture diverse: romana, greca, ebraica, e forse anche per questo era portato a una visione universalistica, al dialogo tra le civiltà, all’inculturazione del Vangelo.
La trasformazione della vita di Paolo avvenuta sulla via di Damasco, da persecutore della Chiesa a credente entusiasta, non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale, ma dell’incontro con Gesù.
La conversione di Paolo coincide con la sua vocazione all’apostolato. Non è possibile incontrare Gesù senza sentire l’esigenza di gridare al mondo la gioia sperimentata: “Predicare il vangelo è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9,16). L’attività apostolica di Paolo ha del portentoso, soprattutto se si considera che egli fu sempre afflitto da una malattia cronica particolarmente fastidiosa (Gal 4,13-15). È stato calcolato che percorse a piedi 7.800 Km e altri 9.000 in mare. Il mondo intero allora conosciuto fu teatro della sua predicazione. Egli non solo fondava nuove comunità cristiane, ma le accompagnava nella crescita pur da lontano anche mandando a loro le sue famose Epistole. Paolo si è dedicato all’annuncio del Vangelo a prezzo di immense sofferenze (2 Cor 11,21-28), ma non si è mai scoraggiato: nella Seconda Lettura (2 Tm 4,6-8.17-18) afferma: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone”.
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