Vangelo di domenica 18 maggio: V Domenica di Pasqua anno C: Giovanni 13, 31-33a. 34-35

il: 

12 Maggio 2025

di: 

Giovanni 13, 31-35

31 Quand’egli fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. 32 Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. 33 Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io voi non potete venire. 34 Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35 Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri».

 

Da: C. MIGLIETTA, EDIFICHERO’ LA MIA CHIESA. Perché (e come) essere Chiesa secondo la Bibbia, Gribaudi, Milano, 2010, con presentazione di S. E. Mons. Guido Fiandino

L’amore fraterno, unico criterio ecclesiologico

L’amore ai fratelli diventa allora veramente il segno dei discepoli di Gesù, il criterio di discernimento tra coloro che aderiscono a Gesù il Cristo e coloro che lo dissolvono, tra i figli della luce e i figli delle tenebre. Gesù infatti aveva detto: “Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). “Amarci gli uni gli altri” è l’unico mezzo per essere sicuri che “Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi” (1 Gv 4,12).

Le lettere di Giovanni richiamano con forza la Chiesa di tutti i tempi a tornare alla sua essenza, che è di essere il luogo dell’agape, dell’amore, il segno della presenza di quel Dio che altro non è che “agape” (1 Gv 4,8), amore. Giovanni esorta la Chiesa a non essere ideologia, a non essere potenza, ma a stare a fianco di ogni uomo, in ogni cultura, assumendone, sull’esempio di Gesù, la povertà e le sofferenze, per portarvi in concretezza segni dell’amore di Dio.

Le lettere giovannee invitano la Chiesa a vivere, come Cristo, il mistero dello svuotamento, della spogliazione, della “kènosis”1, per farsi tutto a tutti2. Ad essere una Chiesa che vive nel servizio, nell’impegno per la giustizia, e che vede in ogni uomo, nel povero, nel malato, nel sofferente, nel reietto, nell’escluso, il suo Dio da amare. Una Chiesa quindi militante, che confessa con forza, e talora con sofferenza, il mistero del Dio-Amore.

Certamente l’ottica di Giovanni è diversa da quella dei sinottici. I sinottici sottolineano la dimensione “ad extra” dell’amore: Luca ci invita a farci prossimo di tutti, anche se nemici o impuri come il samaritano3; Matteo esige: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,44-47); e Paolo dirà: “Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne” (Rm 9,3). Giovanni invece insiste sull’amarsi tra cristiani, sull’amore come segno distintivo della Chiesa. Fratello per Giovanni non è, come intendono Blaz e Bultmann, ogni uomo, ma il cristiano: e “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). E’ il grande tema dell’amore all’interno della Chiesa4, dell’“amarsi gli uni gli altri” (1 Gv 3,11.23; 4,7.11-12; 2 Gv 1,5).

Perché Giovanni, i cui scritti sono tra gli ultimi del Nuovo Testamento, si preoccupa più della dimensione ecclesiale dell’amore che di quella esterna? Forse perché Giovanni, sviluppandosi la vita ecclesiale, ha capito come spesso è più facile amare i lontani che gli altri cristiani: e la storia della Chiesa, con tutte le sue lotte intestine, le sue lacerazioni, i suoi scismi, le reciproche scomuniche, i suoi partiti e le sue fazioni, le sue correnti e i suoi movimenti vari in perenne disputa tra loro, lo ha ampiamente dimostrato. Talora è più facile impegnarsi per i poveri e gli oppressi che sopportare coloro che ci emarginano proprio in nome di Cristo. E’ più facile aiutare un lontano che amare il vicino che vive il cristianesimo con una sensibilità che ci urta. E’ più facile perdonare un oppressore esterno che dialogare con una gerarchia che talora può sembrarci antievangelica. “Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato” (1 Gv 2,6): c’è bisogno cioè che la Chiesa sia nel mondo segno visibile dell’Amore incarnato, sia sua concreta profezia per tutti gli uomini: non abbiamo altra missione che attirare gli altri a noi con la forza del nostro amore reciproco. Ecco perché la Chiesa deve mettere al primo posto la “koinonìa”, la “comunione” interna, in un continuo superamento delle divisioni, alla ricerca dell’unità più piena, per essere segno credibile del Dio Amore che la fonda e la anima.

Se nel mondo c’è tanto ateismo, chiediamoci se non è perché noi non riusciamo a dare, con il nostro comportamento, il segno di Dio agli uomini. I nostri rapporti intraecclesiali, sono all’insegna della carità? Nella Chiesa c’è sempre rispetto per le singole persone, per la libertà del singolo, c’è ascolto reciproco, accoglienza, uguaglianza, fraternità, dialogo, astensione dal giudizio? Il grande desiderio e la grande preghiera di Gesù, prima di morire, fu: “Che tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21).

Girolamo, citando un’antica tradizione, afferma che Giovanni, ormai vecchio, fosse solo più capace di dire: “Amatevi!”. L’osservanza del comandamento dell’amore è l’unico criterio di appartenenza ai salvati: non lo è il culto, la conoscenza teologica o biblica: lo è solo l’amore: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3,14).

.

Un amore concreto

L’amore dei cristiani deve essere “non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). Deve arrivare a “dare la vita” (1 Gv 3,16), cominciando concretamente dalla partecipazione delle ricchezze con i poveri: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17). C’è qui tutto il problema della condivisione dei propri beni. Un amore che non tocchi il portafoglio, il conto in banca, è falso5. E anche la fede che non condivida è menzognera: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20): la prima lettera di Giovanni ci fa raggiungere vette sublimi di visione teologica, ma poi ci richiama con forza a tradurre questa rivelazione nella concretezza della vita.

In quest’ottica sono molto rilevanti anche la seconda e la terza lettera di Giovanni. Per taluni sono semplici “biglietti”, poco teologici e privi di interesse universale per la Chiesa. Invece sono importanti perché richiamano anch’esse con forza all’amore, e non ad un amore ideale, ma concreto, calato nel quotidiano dei credenti, con esempi di realizzazione pratica del comando dell’amore.

……

Il primato della Carità

La grande tradizione rabbinica, nel tentativo di sintetizzare tutti i numerosi precetti della Torah, proponeva l’affermazione del profeta Abacuc: “Il giusto vivrà per fede” (Ab 2,4). Paolo accetta la tradizione e riprende il succitato brano di Abacuc (Ab 2,4): “Il giusto vivrà per fede” (Rm 1,17). Ma fede è entrare nella logica del piano d’amore di Dio, perciò Paolo conclude: “Qualsiasi altro comandamento si riassume in queste parole: <<Amerai il prossimo tuo come te stesso>>… Pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13,9-10); “Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: <<Amerai il prossimo tuo come te stesso>>” (Gal 5,14). Se Paolo ricorda solo il secondo comandamento, come pure talora Gesù6, quello dell’amore verso il prossimo, non significa che dimentichi il primo, quello dell’amore verso Dio: per Paolo l’amore verso il prossimo include quello verso Dio, ne è l’unica espressione autentica7.

Al vertice della vita dell’uomo nuovo in Cristo deve esserci quindi l’agàpe, l’amore sincero, genuino: “Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione” (Col 3,14). Ci ammonisce Paolo: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo perché me ne vanti, ma non avessi la carità, niente mi giova” (1 Cor 13,3). Paolo conclude il suo stupendo “inno alla carità” affermando: “La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1 Cor 13,8-13).

…..

Una Chiesa d’amore

Ha scritto Benedetto XVI che la Chiesa deve essere una “comunità d’amore”8. Infatti l’unico criterio di ecclesialità datoci da Gesù è l’amore fraterno: “Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). I pagani del II secolo, ci riferisce Tertulliano, dicevano: “Vedete come si amano tra loro!”9.

La dimensione più importante della vita ecclesiale è quindi l’amore fraterno: “Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10). Ciò che dobbiamo cercare nella Chiesa è l’amore reciproco, ad ogni costo, senza gelosie, senza finzioni. La Chiesa sia il luogo della cordialità, dell’accoglienza reciproca, dell’astensione dal giudizio, della vera e piena fraternità. La Chiesa, come abbiamo visto, deve essere il luogo dove le relazioni fraterne “gli uni gli altri”10 sono strettissime, e dove si è talmente “con”11 da formare davvero un solo corpo.

Nello stesso tempo dobbiamo essere una Chiesa che semina amore. Dobbiamo diventare sempre più “una Chiesa della compassione, una Chiesa dell’assunzione partecipante del dolore altrui, una Chiesa del coinvolgimento quale espressione della sua passione per Dio. Poiché il messaggio biblico su Dio è, nel suo nucleo, un messaggio sensibile alla sofferenza: sensibile al dolore altrui in definitiva fino al dolore dei nemici… La dottrina cristiana della redenzione ha drammatizzato troppo la questione della colpa e ha relativizzato troppo la questione della sofferenza. Il cristianesimo si è trasformato da religione primariamente sensibile alla sofferenza in una religione primariamente attenta alla colpa. Sembra che la Chiesa abbia avuto sempre mano più leggera con i colpevoli che con le vittime innocenti… Il primo sguardo di Gesù non andava al peccato degli altri, bensì al dolore degli altri. Nel linguaggio di una religione borghese irrigidita in se stessa, che davanti a niente ha tanta paura quanto di fronte al proprio naufragio e che perciò continua a preferire l’uovo oggi alla gallina domani, questo è difficile da spiegare. Dobbiamo invece metterci sulle tracce di una durevole simpatia, impegnarci in una disponibilità coraggiosa a non eludere il dolore degli altri, in alleanze e progetti-base della compassione che si sottraggano all’attuale corrente della raffinata indifferenza e della coltivata apatia, e che rifiutino di vivere e celebrare felicità e amore esclusivamente come messe in scena narcisistiche di apparato” (J. B. Metz12).

Buona Misericordia a tutti!

Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.

Fonte dell’articolo

spazio + spadoni

CONDIVIDI

Potrebbe piacerti anche