I migranti? Una speranza di umanità
Da Popoli e Missione, uno sguardo ai migranti che sbarcano portando “umanità” e verso i quali possiamo compiere più opere di misericordia
Ne è più che sicura, Bruna Mangiola, sposa, madre e nonna, volontaria molto attiva dal 2013 al porto di Reggio Calabria nell’accoglienza di migliaia di migranti che sbarcano sulle nostre coste: «I migranti, queste persone, ci portano umanità, decine e decine di storie, di vita, di sofferenza. Ci portano l’umanità che qui da noi ormai sembra perduta».
Lo ripete sempre, ogni volta che è chiamata a parlare della sua esperienza quotidiana di servizio e vicinanza ai migranti, di chi arriva da lontano. Per la verità, alla parola “migranti”, Bruna aggiunge sempre la parola “persone”, perché sì, prima di essere migranti, sono persone. E tali rimangono, ovunque si trovino.
Di persone ne ha viste sbarcare a migliaia in oltre 12 anni di servizio nel Coordinamento diocesano sbarchi, un progetto nato nel 2013, quando dalle navi in arrivo al porto di Reggio scendevano fino a 1.800 profughi alla volta. «Adesso – commenta Bruna – quando arrivano poche centinaia di migranti ci si meraviglia».
All’epoca, con lo stimolo e l’aiuto dell’allora direttore della Caritas diocesana reggina, don Nino Pangallo, nel giro di poche ore di fronte all’emergenza nacque il Coordinamento diocesano sbarchi. «Coinvolgemmo tutte le associazioni dell’area cattolica – racconta Bruna – perché avevamo la consapevolezza che da soli non avremmo potuto fare nulla. Ci voleva una forza comune, un’unione che abbiamo costruito.
Chiedemmo l’autorizzazione alla Prefettura per entrare al porto. Credevamo di ricevere un diniego, ma il Signore è grande e ci ha aperto le porte». La Prefettura si rese subito conto dell’impegno e della preziosa collaborazione di questa nuova realtà e si creò una relazione intensa con le istituzioni: «Con la Questura, i medici dell’Usl, la Prefettura, eravamo diventati una forza, un tutt’uno. Quando arrivavano gli sbarchi, i primi ad essere avvisati eravamo noi volontari: tutti si sono sempre fidati del nostro servizio e del nostro operato».
Il compito del Coordinamento diocesano sbarchi non è solo quello di distribuire vestiti, cibo o bevande calde, ma «anche e soprattutto relazioni: un sorriso, un abbraccio e una carezza. Siamo nati per accogliere queste persone che arrivano con uno zaino pieno di dolore, a piedi nudi, laceri, sofferenti. I nostri ambiti di servizio sono la strada, il porto e la stazione».
I volontari hanno fatto e fanno ancora oggi un servizio splendido. Ancora oggi, quando si verificano sbarchi al porto di Roccella Jonica, vengono attivati per intervenire. Di notte, di giorno, chi può parte e va. Questo piccolo esercito della carità, dell’amore, dell’accoglienza è sempre più attento alle esigenze di chi arriva da lontano.
«Nel mio servizio – racconta Bruna – cerco di tradurre in realtà le pagine del Vangelo più belle in assoluto: “Ero nudo e mi avete vestito, ero affamato e mi avete dato da mangiare, ero sporco e mi avete lavato”.
Sul molo abbiamo lavato centinaia di bambini, abbiamo vestito persone che arrivavano senza nulla, abbiamo curato ferite gravissime dovute alle ustioni del carburante». Ma le attenzioni per chi sbarca non finiscono sul molo: i volontari fanno di tutto per seguire anche successivamente le persone arrivate da lontano, grazie ad una rete di umanità che prende forma intrecciando disponibilità, empatia, tenerezza.
«Noi e i nostri figli abbiamo dei sogni. Perché i genitori e i ragazzi africani non possono averli? Perché un giovane che arriva dall’altra sponda del Mediterraneo non può avere il sogno di fare il chirurgo o il maestro di musica? Davanti agli occhi del Signore siamo tutti uguali, non c’è nessuna differenza», osserva Bruna, ricordando che spesso si può solo imparare da «queste persone».
Che i migranti siano maestri di umanità lo testimonia anche da don Nino Pangallo, ex responsabile della Caritas diocesana reggina, attualmente parroco del Santuario San Paolo alla Rotonda. «Era il Corpus Domini del 2016 e avevo celebrato le Prime Comunioni. Ci arrivò la notizia di uno sbarco, con l’informazione che a bordo c’erano anche diverse salme di persone morte durante la traversata. Capii subito che lì c’era il corpo di Cristo. Mentre aspettavamo le salme sul porto per procedere alla benedizione – ricorda il sacerdote – un volontario mi portò un libretto: era un Nuovo Testamento scritto in tigrino, pieno di annotazioni a margine, sottolineature, pagine vissute. Era stato trovato su un corpo senza vita. Su quel gommone, nel suo ultimo viaggio, quella persona aveva portato la fede con sé. Oltre al resto, aveva voluto la Parola di Dio».
Fonte
- Popoli e Missione, giugno/2025, pp. 40-41
Immagine
- Immagine creata digitalmente da spazio + spadoni