Quarta opera di misericordia | Consolare gli afflitti

il: 

16 Giugno 2025

di: 

Dal sito dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute della CEI, il commento alla quarta opera di misericordia spirituale

 Don Danilo Priori* (Vice Assistente Nazionale UNITALSI 2016)

Nel discorso della montagna riportato dall’evangelista Matteo possiamo individuare la beatitudine attraverso cui rileggere la consolazione degli afflitti quale opera di misericordia spirituale: «beati gli afflitti perché saranno consolati» (Mt 5,4). Ma chi sono dunque gli afflitti? E cos’è la consolazione? E perché mai essere afflitti è una beatitudine? E ancora: perché consolare gli afflitti è un’opera di misericordia spirituale?

Per rispondere a tali domande, e dunque ricostruire e attualizzare il senso profondo del Vangelo, abbiamo bisogno di allargare i nostri orizzonti, utilizzando altri passi della Scrittura. Innanzitutto va detto che la beatitudine è una sorta di dichiarazione augurale di felicità riconosciuta a coloro che si trovano in determinate situazioni e condizioni, con relativo motivo della felicità stessa; in altre parole – applicando queste prime considerazioni alla nostra opera di misericordia – essere afflitti è una situazione di felicità perché si è nella condizione di essere consolati. Difficile però credere, per noi abituati a rifuggire alle tribolazioni, che trovarsi nell’afflizione sia motivo di esultanza perché veniamo consolati dal Signore, fonte di ogni consolazione.

Ci viene in soccorso un altro passo biblico: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che come siete partecipi delle sofferenze così lo siete anche della consolazione»(2 Cor 1,3-7).

Cominciamo allora ad intendere che, sempre nell’ottica del credente, noi siamo chiamati a consolare gli afflitti perché seguiamo Gesù quale modello perfetto: è lui che ci ha consolati per primo mostrando il volto misericordioso del Padre, e allo stesso modo ci chiede di consolare coloro nei quali possiamo scorgere il suo volto sofferente. È chiaro che, affinché un gesto sia colto come consolazione deve avere determinate caratteristiche, altrimenti rischiamo di ripercorrere la strada di Giobbe: ai suoi amici che avevano la presunzione di spiegare il motivo delle sue sofferenze replica, senza mezzi termini, che il comportamento di Dio è incomprensibile perché alcuni uomini trascorrono la loro vita senza patimenti e altri invece senza mai aver gustato il bene; il suo sgomento di fronte alla sofferenza inspiegabile lo porta addirittura a dire: «Perché dunque mi consolate invano, mentre delle vostre risposte non resta che inganno?» (Gb 21,34).

Parole dure quelle di Giobbe, ma tanto vicine al nostro lamentarci tutte le volte che non troviamo una spiegazione alle nostre afflizioni. Il punto forse sta nel fatto che la consolazione annunciata dal Vangelo esula un po’ dalle spiegazioni, ma si radica totalmente nella fede: ce ne vuole tanta per accogliere nella nostra vita un’afflizione e accettarla nella consapevolezza di essere consolati dal buon Dio.

Spesso si dice che la vera consolazione è quella in cui riesci a stare nell’afflizione dell’altro rispettando – in qualche modo – la solitudine in cui vive a motivo della sofferenza; come a dire, insomma, che nessun uomo può estirpare l’afflizione, ma ogni uomo può farsi prossimo e attraverso la sua vicinanza far sperimentare la consolazione del Signore. Del resto il Vangelo può essere riletto come un grande pellegrinaggio attraverso il quale Gesù consola la creatura afflitta, talvolta guarendo, altre volte insegnando, altre ancora infondendo speranza perché ogni afflizione si trasformerà in gioia (cf Gv 16,20); e alla Chiesa ha lasciato il mandato di continuare questa opera di consolazione fino al giorno in cui il Signore «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).

Nel frattempo tocca dunque a noi essere vicini al fratello afflitto, nella consapevolezza che non tutti riescono a dare una spiegazione alle proprie sofferenze e, quando questo accade, possiamo considerarlo una vera e propria grazia. Si tratta, insomma, di stare accanto alla persona afflitta, a prescindere dal motivo dell’afflizione, con la volontà di esserci senza avere la presunzione di conoscere le parole e i gesti che sicuramente consoleranno la persona in difficoltà, liberandoci da quegli stereotipi di consolazione che caratterizzano e sviliscono la consolazione cristiana.

Forse l’immagine più bella e perfetta di consolazione è quella descritta dall’evangelista Giovanni che racconta la presenza silenziosa della Madre ai piedi della croce di Gesù (cf Gv 19,25); i loro sguardi non avevano bisogno di parole, le loro mani potevano sfiorarsi solo nel patimento dei cuori, come due carni afflitte che appartengono allo stesso destino e si consolano nella profondità dei respiri

(Testo del novembre 2016)

*Don Danilo Priori è deceduto nel 2023, a 53 anni, a causa di una patologia genetica rara.

Fonte

Immagine

  • Illustrazione di suor Marie-Anastasia Carré (Communauté des Béatitudes)

CONDIVIDI

Potrebbe piacerti anche