“A Cuba, mancano tante cose, ma non la speranza”
Da Cuba ci scrive don Efrem Lazzaroni, fidei donum bergamasco: “negli ultimi mesi, la vita qui può essere descritta in tre parole: ciclón, apagón y hambre”
(di don Efrem Lazzaroni)
Ciclón
Ciclón (“ciclone”) è stato l’uragano Oscar che il 20 ottobre scorso ha deciso di passare proprio nel territorio della mia parrocchia di Jamal, lasciando la sua ondata di distruzione.
Vivere un ciclone significa provare giorni o, in questo caso, ore di angoscia prima che arrivi, poi paura durante il suo passaggio, e infine frustrazione quando “se ne va” e si comincia a guardare attorno e a contare i danni.
Vivere un ciclone è sempre dover “ricominciare da zero” sia per l’uomo che per la natura, perché le devastazioni riguardano sia le strutture che la vegetazione. Oscar ha portato via il tetto a molte case, con le inondazioni qualcuno ha perso anche vestiti, elettrodomestici e materassi… ma soprattutto a farsi sentire sono i danni all’agricoltura, perché si perdono gli alberi e gli ortaggi.
Yoan, un giovane della montagna, proprio nella settimana precedente mi confidava la sua soddisfazione perché era riuscito ad arare il campo e seminare duemila piantine di pomodori… dopo tre giorni di quella piantagione non restava più niente.
Miryenis invece, una ragazza di 20 anni incinta del terzo figlio, che abita sulla costa, mi raccontava che nella sua zona, a causa della mancanza di corrente, nessuno aveva ricevuto notizia dell’arrivo imminente dell’uragano e quindi hanno dovuto abbandonare la loro casa in fretta, con i bambini piccoli in braccio, cercando un rifugio più sicuro, mentre la pioggia battente e le raffiche di vento già stavano facendo cadere alberi e volare lamiere.
Apagón
Apagón (che letteralmente significherebbe “grande spegnimento” o “black out”) è invece il nome che si dà alla mancanza temporanea di corrente elettrica. Dicono che Cuba vista dal cielo ormai sembra un grande albero di Natale con le luci intermittenti: se c’è luce in una città o quartiere, si spegne nell’altro… e così via… a seconda dei Megawatt disponibili.
Normalmente, dovrebbero essere turni di accensione e spegnimento di 6 ore, ma poi, a seconda delle rotture frequenti nelle centrali termoelettriche, si può arrivare a 20 ore giornaliere senza corrente, o, come successo in questi ultimi mesi, all’ “Apagón total”, cioè al collasso del sistema elettrico nazionale, con l’isola intera che rimane senza corrente per alcuni giorni.
Visto dalla terra, il regime degli apagones non assomiglia ovviamente a un albero di Natale, ma a una crudele tortura… “Quando arriverà la corrente?” oppure “l’hanno già tolta di nuovo???”.
Xiomara, una maestra della scuola primaria, mi spiega che ormai si è abituata: “di sera mi addormento ma lascio l’interruttore acceso: se alle 2 di notte arriva la corrente, mi alzo e preparo la colazione e il pranzo per il giorno dopo, magari faccio anche la lavatrice e stiro qualcosa… poi ritorno a letto. Quando mi risveglio già la corrente non c’è più, mi alzo e vado al lavoro. Al pomeriggio torno a casa e, se c’è corrente, preparo la cena, altrimenti aspetto anche fino a tarda serata…”.
Questo succede soprattutto in città a chi abita in appartamento, mentre nelle campagne la gente ha già ripristinato le cucine a legna o a carbone (e lava i panni nel fiume o con l’acqua piovana).
Dolores, una nonna con svariati nipoti, invece mi manifesta la sua rabbia: “Ho investito i soldi dei prossimi 3 mesi di pensione, chiedendoli in prestito, per poter comprare un pacchetto di 5kg di pollo che ho trovato nel mercato nero… se la corrente non viene neanche domani, incomincia a decongelarsi nel freezer e mi va in malora!”.
D’estate poi senza corrente non si riesce neanche a dormire, perché sono necessari i ventilatori a causa del caldo molto umido. La gente vive stressata, al punto che ormai le persone, quando si incontrano, invece di chiedersi “come stai?”, si dicono: “quante ore di corrente hai avuto oggi?”.
Hambre
Hambre invece significa “fame”. Ovvero difficoltà cronica a trovare cibo. Come si sa, il governo socialista dovrebbe vendere mensilmente alla popolazione alcuni alimenti basici (riso, olio, zucchero, latte per i bambini…) secondo una quantità stabilita per ciascuno con la famosa “tessera”. Ebbene, ad oggi, non ha ancora venduto niente!
Aniuska e Mylenis sono due giovani mamme, tre e due figli rispettivamente, che incontro una volta al mese in una comunità sulle montagne di Maisì: “noi ormai non mandiamo più i nostri bambini a scuola – mi dicono – perché non abbiamo niente da dar loro per colazione né per merenda, e non vogliamo che vadano a scuola a svenire. Alla bottega non arriva né il pane né il latte né lo zucchero, e l’uragano si è portato via la frutta, il cacao e il caffè dai nostri campi… Come facciamo?”.
Questa ricerca del cibo occupa sempre i pensieri e le conversazioni quotidiane della gente. Durante una Messa stavo commentando il brano di Vangelo in cui Gesù risuscita la figlia del capo della sinagoga dicendo ai familiari che “la fanciulla non è morta, ma dorme” (Mc 5,39) e nell’omelia mi scappa una domanda retorica: “la bambina quindi era morta o dormiva?”. Mi interrompe prontamente dai banchi Berto, un campesino tipo Bud Spencer, sbottando: “Padre, leggi bene, guarda che in realtà la bambina era svenuta dalla fame! Infatti, Gesù alla fine dice che dovevano darle da mangiare!” (Mc 5,43) … Sarà andata effettivamente così?!
Ma come si affrontano quotidianamente tutti questi problemi? I cubani sono abituati ormai a sopportare tutto e ad organizzarsi per sopravvivere in mezzo ai tormenti: abitano in una casa con solo un pezzo di tetto (che gocciola in caso di pioggia), dormono su un cartone al posto del materasso, si sottomettono a code interminabili per comprare un solo pane ciascuno (quando arriva), aspettano mesi per poter incassare lo stipendio o la pensione (perché lo Stato, tra le altre cose, è rimasto anche senza soldi), se hanno bisogno di un’operazione in ospedale devono procurarsi nel mercato nero l’anestesia, la siringa, i guanti e persino il filo per farsi mettere i punti… oltre a regalare una gallina o una pecora al chirurgo per “convincerlo” ad effettuare l’intervento.
Sono un esempio di ciò che noi europei abbiamo chiamato “resilienza” (che in realtà qui è una condizione permanente), ma soprattutto li sorregge una grande fede in Dio e nella sua “Provvidenza”!
Davanti a tutti i loro piani e le loro azioni sempre dicono “se Dio vuole”, “se Dio permette”, “se Dio mi aiuta”… non importa che siano cristiani o no, praticanti o no… mi pare che qui ormai persino i comunisti non riescono più a rimanere atei! Chi riesce emigra in cerca di un futuro migliore, gli altri rimangono sull’isola “luchando con la vida” (lottando con la vita) – dicono – “fin che Dio vuole”!!!
In questo quadro complesso si svolge anche la nostra missione, che consiste, come recita una delle preghiere eucaristiche della Messa, nel “condividere i dolori e le angosce, le gioie e le speranze, e progredire insieme sulla via della salvezza”, che alla fine è Gesù Cristo stesso “via che ci conduce, verità che ci fa liberi, vita che ci riempie di gioia”.
In questi mesi ho notato, nonostante tutto, la voglia della gente di riunirsi per celebrare il Natale e le altre feste, per esempio la festa patronale di ogni piccola comunità, con iniziative semplici ma sentite… perché anche organizzare una merenda diventa un problema insormontabile. I bambini poi aspettano sempre in modo speciale l’Epifania, el “Dia de Reyes”, perché qui sono i Re Magi, e non Santa Lucia o Babbo Natale, a portare i regali. Per fortuna proprio quel giorno sono arrivati a trovarci Elena e Dario, una coppia italiana di Seriate, con un bel po’ di valigie belle piene… e così anche i Re Magi hanno tirato un sospiro di sollievo ed hanno potuto fare contenti piccoli e grandi!
In questi giorni, dopo tanto tempo, siamo riusciti a celebrare anche vari battesimi, matrimoni e prime comunioni… sono occasioni in cui si sente davvero rinascere la speranza!
E poi i compleanni, a cui comunque i cubani non possono mai rinunciare! …specialmente se si tratta dei 15 anni di una ragazza (che è una tradizione di passaggio dall’adolescenza all’età adulta) e la festa deve essere “in grande”. Così, per esempio, il 31 di dicembre l’ho trascorso in una “missione speciale” e rocambolesca: un viaggio avventuroso con la jeep attraversando 20 km di pietre e fango per portare la torta – cercando di non farla rompere – alla festa dei 15 anni di Erika, una adolescente della parrocchia.
Quando abbiamo dovuto attraversare il fiume, i “portatori” hanno deciso che era meglio far attraversare la torta “a piedi”, per non rischiare, e risalire sulla jeep sull’altra riva.
Il papà e la mamma di Erika stavano mettendo da parte da mesi i loro pochi risparmi per poter comprare gli ingredienti della torta, e il nonno stava allevando un maialino da sacrificare per l’occasione… ma purtroppo dopo il ciclone l’ha trovato morto per la caduta di un albero! Questo ha gettato nello sconforto tutta la famiglia per alcuni giorni… però poi “con l’aiuto di Dio” hanno ricominciato a lottare.
Alla fine è stata una bella giornata di festa con tutta la famiglia e gli amici, dove non è mancato il momento di preghiera con la benedizione della “quindicenne”. Contenta Erika, contenti il papà e la mamma, contenti tutti i partecipanti… e contento anche il parroco!
Per me infatti non poteva esserci modo migliore per cominciare questo anno giubilare, in cui il Papa ci invita a essere “pellegrini di speranza”. Sì, qui a Cuba mancano tante cose… ma non il viaggio e la speranza!
Un saluto a tutti e buon Giubileo!
Fonte e immagini
- spazio + spadoni
- Don Efrem Lazzaroni