Dal carcere a san Pietro: pellegrini di speranza

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14 Agosto 2025

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Pellegrinaggio-carcerati

L’esperienza del cappellano don Massimo Cadamuro in pellegrinaggio con tre detenuti veneziani: “un seme di speranza”

Un pellegrinaggio giubilare fino a Roma, in parte a piedi, per essere ricevuti, il 7 agosto, da Papa Leone XIV nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico. Fin qui niente di insolito. La straordinarietà di questa esperienza è che, a fianco di don Massimo Cadamuro, cappellano della Casa Circondariale “Santa Maria Maggiore” di Venezia, camminavano tre detenuti veneziani in permesso speciale.

Per loro, una breve parentesi di libertà e comunione che ha sicuramente riacceso il desiderio di riconoscere sé stessi come uomini, al di là dell’etichetta di “detenuto”, di sentirsi persone “amate per quello che sono”, non per quello che hanno fatto.

Il carcere è spesso vissuto come luogo di annichilimento più che di possibile rinascita, e il rischio è che si cancelli ogni traccia di dignità nei reclusi. Il sacerdote, infatti, ribadisce che “una risposta concepita solo in termini repressivi e punitivi” non si rivela sempre feconda. E, in questo caso, anche solo poche ore di vita normale – il camminare, il conversare, la preghiera condivisa – possono diventare seme di speranza.

Serve un’apertura umana per promuovere trasformazione vera, oltre il muro delle recinzioni.

E per tutti quei detenuti che non hanno avuto questa opportunità speciale, oltre alle varie iniziative che vanno promosse nelle carceri per favorire il reinserimento e aprire spazi di umanità, c’è la sesta opera di misericordia: visitare i carcerati.

Nel Vangelo, è una chiamata chiara e diretta, che non lascia spazio a interpretazioni: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,36). Un gesto che ci porta al cuore stesso del messaggio di Gesù, in cui si rivela la nostra capacità di vedere l’altro come figlio amato, anche quando tutto nel suo passato grida colpa.

Dove la società a volte chiude gli occhi e da tante situazioni trapelano solitudine e abbandono,  può nascere qualcosa di nuovo. Per chi entra con cuore aperto, la visita al detenuto non è mai solo un atto di compassione: è un incontro che trasforma.

È nel volto del fratello incarcerato che possiamo scoprire quanto fragile sia il confine tra giustizia e misericordia, tra la caduta e la possibilità di rialzarsi. Nessuno è il suo errore. Nessuno si riduce a ciò che ha fatto.

E allora la sesta opera diventa una una piccola missione “ad gentes” dentro i confini delle nostre città, lì dove l’umanità ha più bisogno di essere raggiunta. Perché l’Amore rende liberi, la relazione guarisce, la prossimità riapre il futuro.

Un carcere può restituire dignità, donare il desiderio di una vita autentica, coltivare la fiducia nel domani. Deve essere, come ha sottolineato don Massimo, un luogo che educa alla speranza.

Fonte e immagine

L’esperienza del cappellano don Massimo Cadamuro in pellegrinaggio con tre detenuti veneziani: “un seme di speranza”

Un pellegrinaggio giubilare fino a Roma, in parte a piedi, per essere ricevuti, il 7 agosto, da Papa Leone XIV nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico. Fin qui niente di insolito. La straordinarietà di questa esperienza è che, a fianco di don Massimo Cadamuro, cappellano della Casa Circondariale “Santa Maria Maggiore” di Venezia, camminavano tre detenuti veneziani in permesso speciale.

Per loro, una breve parentesi di libertà e comunione che ha sicuramente riacceso il desiderio di riconoscere sé stessi come uomini, al di là dell’etichetta di “detenuto”, di sentirsi persone “amate per quello che sono”, non per quello che hanno fatto.

Il carcere è spesso vissuto come luogo di annichilimento più che di possibile rinascita, e il rischio è che si cancelli ogni traccia di dignità nei reclusi. Il sacerdote, infatti, ribadisce che “una risposta concepita solo in termini repressivi e punitivi” non si rivela sempre feconda. E, in questo caso, anche solo poche ore di vita normale – il camminare, il conversare, la preghiera condivisa – possono diventare seme di speranza.

Serve un’apertura umana per promuovere trasformazione vera, oltre il muro delle recinzioni.

E per tutti quei detenuti che non hanno avuto questa opportunità speciale, oltre alle varie iniziative che vanno promosse nelle carceri per favorire il reinserimento e aprire spazi di umanità, c’è la sesta opera di misericordia: visitare i carcerati.

Nel Vangelo, è una chiamata chiara e diretta, che non lascia spazio a interpretazioni: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,36). Un gesto che ci porta al cuore stesso del messaggio di Gesù, in cui si rivela la nostra capacità di vedere l’altro come figlio amato, anche quando tutto nel suo passato grida colpa.

Dove la società a volte chiude gli occhi e da tante situazioni trapelano solitudine e abbandono,  può nascere qualcosa di nuovo. Per chi entra con cuore aperto, la visita al detenuto non è mai solo un atto di compassione: è un incontro che trasforma.

È nel volto del fratello incarcerato che possiamo scoprire quanto fragile sia il confine tra giustizia e misericordia, tra la caduta e la possibilità di rialzarsi. Nessuno è il suo errore. Nessuno si riduce a ciò che ha fatto.

E allora la sesta opera diventa una una piccola missione “ad gentes” dentro i confini delle nostre città, lì dove l’umanità ha più bisogno di essere raggiunta. Perché l’Amore rende liberi, la relazione guarisce, la prossimità riapre il futuro.

Un carcere può restituire dignità, donare il desiderio di una vita autentica, coltivare la fiducia nel domani. Deve essere, come ha sottolineato don Massimo, un luogo che educa alla speranza.

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