Letture: Sap 1,13-15; 2,23-24; 2 Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43
Le letture odierne ci propongono un percorso sul significato dell’Incarnazione. Nella prima si descrive l’umanità che soggiace al limite creaturale e alla morte, ma subito si precisa che Dio “non gode per la rovina dei viventi”, anzi che “ha creato l’uomo per l’immortalità” (Sap 1,13-15; 2,23-24). Nella seconda si afferma che per “grazia” Gesù “da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Cor 8,9). È una delle sue “formule paradossali dell’Incarnazione”, come le definiscono i teologi, come quelle dicono che Dio ha fatto il Figlio peccato (2 Cor 5,21), che il Cristo è diventato maledizione (Gal 3,13-14), figlio di una donna e soggetto alla legge (Gal 4,4-5), che è venuto in una carne simile a quella del peccato (Rm 8,3-4). Queste frasi “estreme” esprimono lo sbigottimento di fronte alla misericordia di Dio: perché Dio si commuove così tanto per la condizione della sua creatura che nel Figlio si fa egli stesso finito, prende su di sé il limite dell’uomo fino alla morte e, per il mistero della resurrezione di Cristo, porta la finitudine umana nell’eternità e nell’immensità della sua vita divina, facendoci suoi figli ed eredi (Rm 8,17). “Dio si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio!” (Atanasio, De incarnazione Verbi, n. 54).
Nel Vangelo (Mc 5,21-43) si esprime questa salvezza integrale portata da Gesù con due miracoli disposti a “sandwich”, secondo lo stile di Marco, contrassegnati dal contatto fisico e dal numero 12 (l’emoroissa è tale da 12 anni, la bimba risuscitata ha 12 anni), cifra che per l’ebraismo indica la precarietà radicale di ogni uomo, povero (l’emorroissa) o ricco che sia (la figlia del capo della sinagoga). La donna viene alle spalle di Gesù (5,27), purché sa che il contatto con lei rende impuri (Lv 15,25); ma tutto ciò che Dio tocca è santificato (Nm 17,3): è il contatto personale con Gesù che ci salva. Per redimerci, Gesù si spoglia della sua “dynamis”, la sua potenza divina (5,30). E’ sempre Dio che fa il primo passo: lo sguardo di Gesù (5,32), in Marco, è elezione di salvezza; e la “shalom”, pace messianica, che egli ci dona, scioglie ogni nostra angoscia e paura (5,34). E’ la fede in lui contro ogni evidenza che vince anche la morte (5,36), che per Dio è solo un sonno (5,39); gli increduli invece non possono contemplare la potenza di Dio (5,40).
Marco usa due verbi (5,41-42: cfr 9,27; Gv 11,23) tipicamente pasquali (Mc 8,31; 9,9-10; 14,28; 16,6): “egeiro”, alzarsi, e “avastazo”, risorgere. Dio, dirà Gesù, “non è un Dio dei morti ma dei viventi!” (12,27). Ancora una volta (Mc 5,43; cfr 1,34; 3,12; 7,36; 8,26) il Cristo impone il silenzio a quelli che guarisce, perché il miracolo è solo un piccolo segno del senso profondo della sua Incarnazione, che sarà guarigione e resurrezione non solo per quei pochi fortunati che lo hanno incontrato nella sua vita terrena, ma per tutti gli uomini di tutti i tempi: solo l’adesione nella fede a lui morto e risorto (“il segno di Giona”: Mt 16,4) darà a tutti vita piena.
Di fronte al miracolo della salvezza non resta che essere anche noi “presi da grande stupore” (5,42): è un tema ben caro a Marco, che usa ben otto verbi diversi per esprimere la meraviglia di fronte al divino.
Il Vangelo odierno si conclude con l’invito di Gesù a “dare da mangiare” alla bambina resuscitata (Mc 5,43): è quasi un preludio a quella che in Marco sarà la “sezione dei pani” (6,6-8,30), con un alto significato liturgico: il cristiano, morto e risorto con Gesù nel battesimo (Rm 6), è invitato a nutrirsi dell’Eucarestia, pane di vita eterna (Gv 6). Ma è anche chiamato, sull’esempio di Gesù, a condividere tutti i suoi beni con i fratelli (seconda lettura: 2 Cor 8,13-15): “i credenti hanno tutto in comune e, in mezzo a loro, la differenza tra ricchi e poveri non sussiste più” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 20).
Dio Si Fa Povero Perché Noi Diventiamo Ricchi
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Letture: Sap 1,13-15; 2,23-24; 2 Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43
Le letture odierne ci propongono un percorso sul significato dell’Incarnazione. Nella prima si descrive l’umanità che soggiace al limite creaturale e alla morte, ma subito si precisa che Dio “non gode per la rovina dei viventi”, anzi che “ha creato l’uomo per l’immortalità” (Sap 1,13-15; 2,23-24). Nella seconda si afferma che per “grazia” Gesù “da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Cor 8,9). È una delle sue “formule paradossali dell’Incarnazione”, come le definiscono i teologi, come quelle dicono che Dio ha fatto il Figlio peccato (2 Cor 5,21), che il Cristo è diventato maledizione (Gal 3,13-14), figlio di una donna e soggetto alla legge (Gal 4,4-5), che è venuto in una carne simile a quella del peccato (Rm 8,3-4). Queste frasi “estreme” esprimono lo sbigottimento di fronte alla misericordia di Dio: perché Dio si commuove così tanto per la condizione della sua creatura che nel Figlio si fa egli stesso finito, prende su di sé il limite dell’uomo fino alla morte e, per il mistero della resurrezione di Cristo, porta la finitudine umana nell’eternità e nell’immensità della sua vita divina, facendoci suoi figli ed eredi (Rm 8,17). “Dio si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio!” (Atanasio, De incarnazione Verbi, n. 54).
Nel Vangelo (Mc 5,21-43) si esprime questa salvezza integrale portata da Gesù con due miracoli disposti a “sandwich”, secondo lo stile di Marco, contrassegnati dal contatto fisico e dal numero 12 (l’emoroissa è tale da 12 anni, la bimba risuscitata ha 12 anni), cifra che per l’ebraismo indica la precarietà radicale di ogni uomo, povero (l’emorroissa) o ricco che sia (la figlia del capo della sinagoga). La donna viene alle spalle di Gesù (5,27), purché sa che il contatto con lei rende impuri (Lv 15,25); ma tutto ciò che Dio tocca è santificato (Nm 17,3): è il contatto personale con Gesù che ci salva. Per redimerci, Gesù si spoglia della sua “dynamis”, la sua potenza divina (5,30). E’ sempre Dio che fa il primo passo: lo sguardo di Gesù (5,32), in Marco, è elezione di salvezza; e la “shalom”, pace messianica, che egli ci dona, scioglie ogni nostra angoscia e paura (5,34). E’ la fede in lui contro ogni evidenza che vince anche la morte (5,36), che per Dio è solo un sonno (5,39); gli increduli invece non possono contemplare la potenza di Dio (5,40).
Marco usa due verbi (5,41-42: cfr 9,27; Gv 11,23) tipicamente pasquali (Mc 8,31; 9,9-10; 14,28; 16,6): “egeiro”, alzarsi, e “avastazo”, risorgere. Dio, dirà Gesù, “non è un Dio dei morti ma dei viventi!” (12,27). Ancora una volta (Mc 5,43; cfr 1,34; 3,12; 7,36; 8,26) il Cristo impone il silenzio a quelli che guarisce, perché il miracolo è solo un piccolo segno del senso profondo della sua Incarnazione, che sarà guarigione e resurrezione non solo per quei pochi fortunati che lo hanno incontrato nella sua vita terrena, ma per tutti gli uomini di tutti i tempi: solo l’adesione nella fede a lui morto e risorto (“il segno di Giona”: Mt 16,4) darà a tutti vita piena.
Di fronte al miracolo della salvezza non resta che essere anche noi “presi da grande stupore” (5,42): è un tema ben caro a Marco, che usa ben otto verbi diversi per esprimere la meraviglia di fronte al divino.
Il Vangelo odierno si conclude con l’invito di Gesù a “dare da mangiare” alla bambina resuscitata (Mc 5,43): è quasi un preludio a quella che in Marco sarà la “sezione dei pani” (6,6-8,30), con un alto significato liturgico: il cristiano, morto e risorto con Gesù nel battesimo (Rm 6), è invitato a nutrirsi dell’Eucarestia, pane di vita eterna (Gv 6). Ma è anche chiamato, sull’esempio di Gesù, a condividere tutti i suoi beni con i fratelli (seconda lettura: 2 Cor 8,13-15): “i credenti hanno tutto in comune e, in mezzo a loro, la differenza tra ricchi e poveri non sussiste più” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 20).
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