La parabola del Samaritano usa una terminologia avvincente e singolarissima, che quasi costituisce le linee guida di un piccolo Corso di formazione alla prossimità. Luca, in uno stupendo crescendo di vocaboli, ci racconta, in dieci movimenti, l’azione del Samaritano verso il ferito.
“Un Samaritano, che era in viaggio (hodèuon)” (Lc 10,33)
Il Samaritano è in sintonia con Gesù nel suo viaggio decisivo. Anche il Samaritano è in esodo, è pellegrino. Potremmo vedere qui il vocabolo della missione. La “Gerusalemme – Gerico” è la strada che unisce la fede alla vita, il Vangelo alla storia, la rivelazione di Dio alle sofferenze e ai peccati degli uomini.
“Lo vide (idòn)” (Lc 10,33)
Anche il Samaritano “vide” il malcapitato, come avevano fatto i rappresentanti della Legge e della Liturgia, ma il suo “vedere” non rimase una sensazione superficiale: lo portò ad agire. “Il più grande peccato contro i poveri è forse l’indifferenza, il «passar oltre, dall’altra parte della strada» (Lc 10,31)… La prima cosa da fare dunque, nei confronti dei poveri, è superare l’indifferenza, l’insensibilità. Gettare via le difese e farci invadere da una sana inquietudine” (R. Cantalamessa).
“Ne ebbe compassione (esplanchnìsthe)” (Lc 10,33)
Gesù “attribuisce al Samaritano le qualità che la religione riconosce solo a Dio…: «ne ebbe compassione» (Lc 10,33)… In greco Luca usa il verbo esplanchnìsthe che richiama l’ebraico rèchem, «l’utero materno». Questo verbo nella Bibbia indica solo la misericordia di Dio e quella che prova Gesù. “«Avere compassione» dunque, dal punto di vista di Dio, significa «protendersi al bisogno dell’altro per rigenerarlo a vita nuova»” (P. Farinella).
“Gli passò accanto (èlthen kat’autòv)… Gli si fece vicino (proselthòn)… Al mio ritorno (epanèrchestha) ti rimborserò” (Lc 10,33-35). Lo stesso verbo érchomai viene specificato prima da katà, accanto, e poi da pros, vicino, prossimo, quindi da ep-an, di nuovo, ancora: è una vera progressione sulla via della compassione e della solidarietà.
“Gli fasciò le ferite (katèdesen tà traùmata autoù)” (Lc 10,34)
Occorre sì ricercare le cause strutturali di tante sofferenze del mondo: è vera carità individuarle, denunciarle, combatterle. Ma intanto è anche importante curare le ferite che sanguinano…
“Versandovi olio e vino (epichèon èlaion kai oìnov)” (Lc 10,34)
Il Samaritano si dà subito da fare, usando quanto di meglio proponeva la medicina di allora. Il discepolo del Signore deve usare ogni mezzo che la scienza e la tecnica propongono per aiutare i fratelli che soffrono, ed essere in prima linea nella ricerca di nuovi rimedi contro le malattie, la fame, le calamità. Non c’è nessuna contrapposizione tra Fede e scienza: anzi il credente gode di ogni vero progresso scientifico ed è in prima fila nel promuoverlo.
“Lo caricò (epibibàsas) sulla propria cavalcatura” (Lc 10,34)
Non basta avvicinarsi ai fratelli, ma occorre poi farci carico di loro, prenderli sulle nostre spalle, anche se questo è un peso, una grande fatica. Il Samaritano non si limita alle prime cure al ferito, ma si fa carico della sua situazione e vi cerca un rimedio più organico, più strutturale.
“Lo portò a una locanda (ègaghen autòv eìspandokeìon)” (Lc 10,34)
Ogni discepolo deve essere un pandochèus, un “onni-accogliente”: e la Chiesa è chiamata ad essere il pan-dochèion, “il luogo che accoglie tutti”. Affermava papa Francesco: “Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia”.
“Si prese cura di lui (epemelèthe autoù)… «Abbi cura di lui (epimelètheti autoù)!»” (Lc 10,34-35)
Prendersi cura è la tenerezza dell’amore, è la dolcezza della simpatia (da syn pathos: patire insieme). Don Milani aveva posto all’ingresso della sua scuola di Barbiana la scritta: “I care”: “Io mi prendo cura”, in chiara contrapposizione al motto fascista: “Me me frego!”.
“Diede due denari (èdoken dùo denària) all’albergatore” (Lc 10,35)
Il Samaritano paga di tasca propria per uno sconosciuto, ci rimette economicamente. La sua carità gli tocca il portafoglio, e senza limiti di investimento: “Ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10,35). La carità non è un pio sentimento: deve coinvolgere il nostro stile di vita, il nostro livello economico, portarci alla condivisione dei beni.
La parabola del buon Samaritano ci presenta quindi un preciso percorso per “farci prossimo” ai fratelli, per essere felici, come ci insegna la Prima Lettura (Dt 30,10-14), e per essere anche noi come Gesù, che è il vero Samaritano (Seconda Lettura: Col 1,15-20). In essa troviamo un vero Decalogo della carità che ci insegna mirabilmente la concretezza ma anche la tenerezza della prossimità.
La parabola del Samaritano usa una terminologia avvincente e singolarissima, che quasi costituisce le linee guida di un piccolo Corso di formazione alla prossimità. Luca, in uno stupendo crescendo di vocaboli, ci racconta, in dieci movimenti, l’azione del Samaritano verso il ferito.
“Un Samaritano, che era in viaggio (hodèuon)” (Lc 10,33)
Il Samaritano è in sintonia con Gesù nel suo viaggio decisivo. Anche il Samaritano è in esodo, è pellegrino. Potremmo vedere qui il vocabolo della missione. La “Gerusalemme – Gerico” è la strada che unisce la fede alla vita, il Vangelo alla storia, la rivelazione di Dio alle sofferenze e ai peccati degli uomini.
“Lo vide (idòn)” (Lc 10,33)
Anche il Samaritano “vide” il malcapitato, come avevano fatto i rappresentanti della Legge e della Liturgia, ma il suo “vedere” non rimase una sensazione superficiale: lo portò ad agire. “Il più grande peccato contro i poveri è forse l’indifferenza, il «passar oltre, dall’altra parte della strada» (Lc 10,31)… La prima cosa da fare dunque, nei confronti dei poveri, è superare l’indifferenza, l’insensibilità. Gettare via le difese e farci invadere da una sana inquietudine” (R. Cantalamessa).
“Ne ebbe compassione (esplanchnìsthe)” (Lc 10,33)
Gesù “attribuisce al Samaritano le qualità che la religione riconosce solo a Dio…: «ne ebbe compassione» (Lc 10,33)… In greco Luca usa il verbo esplanchnìsthe che richiama l’ebraico rèchem, «l’utero materno». Questo verbo nella Bibbia indica solo la misericordia di Dio e quella che prova Gesù. “«Avere compassione» dunque, dal punto di vista di Dio, significa «protendersi al bisogno dell’altro per rigenerarlo a vita nuova»” (P. Farinella).
“Gli passò accanto (èlthen kat’autòv)… Gli si fece vicino (proselthòn)… Al mio ritorno (epanèrchestha) ti rimborserò” (Lc 10,33-35). Lo stesso verbo érchomai viene specificato prima da katà, accanto, e poi da pros, vicino, prossimo, quindi da ep-an, di nuovo, ancora: è una vera progressione sulla via della compassione e della solidarietà.
“Gli fasciò le ferite (katèdesen tà traùmata autoù)” (Lc 10,34)
Occorre sì ricercare le cause strutturali di tante sofferenze del mondo: è vera carità individuarle, denunciarle, combatterle. Ma intanto è anche importante curare le ferite che sanguinano…
“Versandovi olio e vino (epichèon èlaion kai oìnov)” (Lc 10,34)
Il Samaritano si dà subito da fare, usando quanto di meglio proponeva la medicina di allora. Il discepolo del Signore deve usare ogni mezzo che la scienza e la tecnica propongono per aiutare i fratelli che soffrono, ed essere in prima linea nella ricerca di nuovi rimedi contro le malattie, la fame, le calamità. Non c’è nessuna contrapposizione tra Fede e scienza: anzi il credente gode di ogni vero progresso scientifico ed è in prima fila nel promuoverlo.
“Lo caricò (epibibàsas) sulla propria cavalcatura” (Lc 10,34)
Non basta avvicinarsi ai fratelli, ma occorre poi farci carico di loro, prenderli sulle nostre spalle, anche se questo è un peso, una grande fatica. Il Samaritano non si limita alle prime cure al ferito, ma si fa carico della sua situazione e vi cerca un rimedio più organico, più strutturale.
“Lo portò a una locanda (ègaghen autòv eìspandokeìon)” (Lc 10,34)
Ogni discepolo deve essere un pandochèus, un “onni-accogliente”: e la Chiesa è chiamata ad essere il pan-dochèion, “il luogo che accoglie tutti”. Affermava papa Francesco: “Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia”.
“Si prese cura di lui (epemelèthe autoù)… «Abbi cura di lui (epimelètheti autoù)!»” (Lc 10,34-35)
Prendersi cura è la tenerezza dell’amore, è la dolcezza della simpatia (da syn pathos: patire insieme). Don Milani aveva posto all’ingresso della sua scuola di Barbiana la scritta: “I care”: “Io mi prendo cura”, in chiara contrapposizione al motto fascista: “Me me frego!”.
“Diede due denari (èdoken dùo denària) all’albergatore” (Lc 10,35)
Il Samaritano paga di tasca propria per uno sconosciuto, ci rimette economicamente. La sua carità gli tocca il portafoglio, e senza limiti di investimento: “Ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10,35). La carità non è un pio sentimento: deve coinvolgere il nostro stile di vita, il nostro livello economico, portarci alla condivisione dei beni.
La parabola del buon Samaritano ci presenta quindi un preciso percorso per “farci prossimo” ai fratelli, per essere felici, come ci insegna la Prima Lettura (Dt 30,10-14), e per essere anche noi come Gesù, che è il vero Samaritano (Seconda Lettura: Col 1,15-20). In essa troviamo un vero Decalogo della carità che ci insegna mirabilmente la concretezza ma anche la tenerezza della prossimità.
Domenica XV Anno C
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Letture: Dt 30,10-14; Col 1,15-20; Lc 10,25-37
Il Decalogo della prossimità
La parabola del Samaritano usa una terminologia avvincente e singolarissima, che quasi costituisce le linee guida di un piccolo Corso di formazione alla prossimità. Luca, in uno stupendo crescendo di vocaboli, ci racconta, in dieci movimenti, l’azione del Samaritano verso il ferito.
Il Samaritano è in sintonia con Gesù nel suo viaggio decisivo. Anche il Samaritano è in esodo, è pellegrino. Potremmo vedere qui il vocabolo della missione. La “Gerusalemme – Gerico” è la strada che unisce la fede alla vita, il Vangelo alla storia, la rivelazione di Dio alle sofferenze e ai peccati degli uomini.
Anche il Samaritano “vide” il malcapitato, come avevano fatto i rappresentanti della Legge e della Liturgia, ma il suo “vedere” non rimase una sensazione superficiale: lo portò ad agire. “Il più grande peccato contro i poveri è forse l’indifferenza, il «passar oltre, dall’altra parte della strada» (Lc 10,31)… La prima cosa da fare dunque, nei confronti dei poveri, è superare l’indifferenza, l’insensibilità. Gettare via le difese e farci invadere da una sana inquietudine” (R. Cantalamessa).
Gesù “attribuisce al Samaritano le qualità che la religione riconosce solo a Dio…: «ne ebbe compassione» (Lc 10,33)… In greco Luca usa il verbo esplanchnìsthe che richiama l’ebraico rèchem, «l’utero materno». Questo verbo nella Bibbia indica solo la misericordia di Dio e quella che prova Gesù. “«Avere compassione» dunque, dal punto di vista di Dio, significa «protendersi al bisogno dell’altro per rigenerarlo a vita nuova»” (P. Farinella).
Occorre sì ricercare le cause strutturali di tante sofferenze del mondo: è vera carità individuarle, denunciarle, combatterle. Ma intanto è anche importante curare le ferite che sanguinano…
Il Samaritano si dà subito da fare, usando quanto di meglio proponeva la medicina di allora. Il discepolo del Signore deve usare ogni mezzo che la scienza e la tecnica propongono per aiutare i fratelli che soffrono, ed essere in prima linea nella ricerca di nuovi rimedi contro le malattie, la fame, le calamità. Non c’è nessuna contrapposizione tra Fede e scienza: anzi il credente gode di ogni vero progresso scientifico ed è in prima fila nel promuoverlo.
Non basta avvicinarsi ai fratelli, ma occorre poi farci carico di loro, prenderli sulle nostre spalle, anche se questo è un peso, una grande fatica. Il Samaritano non si limita alle prime cure al ferito, ma si fa carico della sua situazione e vi cerca un rimedio più organico, più strutturale.
Ogni discepolo deve essere un pandochèus, un “onni-accogliente”: e la Chiesa è chiamata ad essere il pan-dochèion, “il luogo che accoglie tutti”. Affermava papa Francesco: “Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia”.
Prendersi cura è la tenerezza dell’amore, è la dolcezza della simpatia (da syn pathos: patire insieme). Don Milani aveva posto all’ingresso della sua scuola di Barbiana la scritta: “I care”: “Io mi prendo cura”, in chiara contrapposizione al motto fascista: “Me me frego!”.
Il Samaritano paga di tasca propria per uno sconosciuto, ci rimette economicamente. La sua carità gli tocca il portafoglio, e senza limiti di investimento: “Ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10,35). La carità non è un pio sentimento: deve coinvolgere il nostro stile di vita, il nostro livello economico, portarci alla condivisione dei beni.
La parabola del buon Samaritano ci presenta quindi un preciso percorso per “farci prossimo” ai fratelli, per essere felici, come ci insegna la Prima Lettura (Dt 30,10-14), e per essere anche noi come Gesù, che è il vero Samaritano (Seconda Lettura: Col 1,15-20). In essa troviamo un vero Decalogo della carità che ci insegna mirabilmente la concretezza ma anche la tenerezza della prossimità.
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Letture: Dt 30,10-14; Col 1,15-20; Lc 10,25-37
Il Decalogo della prossimità
La parabola del Samaritano usa una terminologia avvincente e singolarissima, che quasi costituisce le linee guida di un piccolo Corso di formazione alla prossimità. Luca, in uno stupendo crescendo di vocaboli, ci racconta, in dieci movimenti, l’azione del Samaritano verso il ferito.
Il Samaritano è in sintonia con Gesù nel suo viaggio decisivo. Anche il Samaritano è in esodo, è pellegrino. Potremmo vedere qui il vocabolo della missione. La “Gerusalemme – Gerico” è la strada che unisce la fede alla vita, il Vangelo alla storia, la rivelazione di Dio alle sofferenze e ai peccati degli uomini.
Anche il Samaritano “vide” il malcapitato, come avevano fatto i rappresentanti della Legge e della Liturgia, ma il suo “vedere” non rimase una sensazione superficiale: lo portò ad agire. “Il più grande peccato contro i poveri è forse l’indifferenza, il «passar oltre, dall’altra parte della strada» (Lc 10,31)… La prima cosa da fare dunque, nei confronti dei poveri, è superare l’indifferenza, l’insensibilità. Gettare via le difese e farci invadere da una sana inquietudine” (R. Cantalamessa).
Gesù “attribuisce al Samaritano le qualità che la religione riconosce solo a Dio…: «ne ebbe compassione» (Lc 10,33)… In greco Luca usa il verbo esplanchnìsthe che richiama l’ebraico rèchem, «l’utero materno». Questo verbo nella Bibbia indica solo la misericordia di Dio e quella che prova Gesù. “«Avere compassione» dunque, dal punto di vista di Dio, significa «protendersi al bisogno dell’altro per rigenerarlo a vita nuova»” (P. Farinella).
Occorre sì ricercare le cause strutturali di tante sofferenze del mondo: è vera carità individuarle, denunciarle, combatterle. Ma intanto è anche importante curare le ferite che sanguinano…
Il Samaritano si dà subito da fare, usando quanto di meglio proponeva la medicina di allora. Il discepolo del Signore deve usare ogni mezzo che la scienza e la tecnica propongono per aiutare i fratelli che soffrono, ed essere in prima linea nella ricerca di nuovi rimedi contro le malattie, la fame, le calamità. Non c’è nessuna contrapposizione tra Fede e scienza: anzi il credente gode di ogni vero progresso scientifico ed è in prima fila nel promuoverlo.
Non basta avvicinarsi ai fratelli, ma occorre poi farci carico di loro, prenderli sulle nostre spalle, anche se questo è un peso, una grande fatica. Il Samaritano non si limita alle prime cure al ferito, ma si fa carico della sua situazione e vi cerca un rimedio più organico, più strutturale.
Ogni discepolo deve essere un pandochèus, un “onni-accogliente”: e la Chiesa è chiamata ad essere il pan-dochèion, “il luogo che accoglie tutti”. Affermava papa Francesco: “Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia”.
Prendersi cura è la tenerezza dell’amore, è la dolcezza della simpatia (da syn pathos: patire insieme). Don Milani aveva posto all’ingresso della sua scuola di Barbiana la scritta: “I care”: “Io mi prendo cura”, in chiara contrapposizione al motto fascista: “Me me frego!”.
Il Samaritano paga di tasca propria per uno sconosciuto, ci rimette economicamente. La sua carità gli tocca il portafoglio, e senza limiti di investimento: “Ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10,35). La carità non è un pio sentimento: deve coinvolgere il nostro stile di vita, il nostro livello economico, portarci alla condivisione dei beni.
La parabola del buon Samaritano ci presenta quindi un preciso percorso per “farci prossimo” ai fratelli, per essere felici, come ci insegna la Prima Lettura (Dt 30,10-14), e per essere anche noi come Gesù, che è il vero Samaritano (Seconda Lettura: Col 1,15-20). In essa troviamo un vero Decalogo della carità che ci insegna mirabilmente la concretezza ma anche la tenerezza della prossimità.
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