Nell’Evangelo di Marco, i miracoli occupano circa un terzo della narrazione (209 versetti su 666): sono in genere prodigi di guarigione o di resurrezione di morti, ma talora anche di dominio sulla natura. I miracoli sono la conseguenza della potenza di salvezza di Gesù, dello scopo della sua missione: egli è venuto per sconfiggere definitivamente il male e la morte, e la sua vittoria inizia proprio nel limite spazio-temporale della povera umanità ammalata che a lui accorre e della natura ostile. Perciò Marco li chiama dynamis, potenza (Mc 6,2.5.14; 9,39), e mai sèmeion, segno, o tèras, prodigio. I miracoli nei Vangeli non sono quindi, di per sè, segni propagandistici compiuti per dimostrare che Gesù è Dio, ma momenti rivelativi della divina sollecitudine per i sofferenti, della missione del Figlio di farci superare la nostra finitudine creaturale: restano infatti, nella Scrittura, come gesti in sè ambigui, che lasciano talora perplessi i testimoni, che di per sè non inducono gli astanti alla fede in Gesù (Gv 12,37). Anzi, Gesù ammonisce che “segni e portenti” potranno essere compiuti anche da “falsi cristi e falsi profeti” (Mc 13,22). Perciò Gesù rifiuta ogni segno ai farisei che gliene chiedono uno di prova (Mc 8,11-13). Si spiega allora perché il Signore spesso imponga il silenzio a quelli che guarisce (Mc 1,34; 3,12; 5,43; 7,36; 8,26). E si capisce l’insistenza della fede richiesta a chi viene guarito (Mc 5,34; 7,29; 9,22-24; 10,52): Gesù ribadisce che la salvezza totale viene solo dall’adesione a lui, e l’evento miracolo altro non è che un epifenomeno del totale annientamento del male che la sua incarnazione realizza.
Il Vangelo odierno ci presenta l’inizio del “Libretto dei miracoli” di Marco (4,35-6,6): siamo “in quel giorno”, il “giorno di IHWH”, il giorno della prova, “verso sera” (v. 35), quando ormai si avvicina l’ora delle tenebre. Si scatena la tempesta sul lago, ma Gesù, sulla barca, dorme: è il sonno di Dio, la sua assenza, esperienza di tutti i credenti (Sl 44,24; Is 51,9-10). È il momento della croce, il silenzio del sabato santo, il sonno di Cristo nel sepolcro. Com’è difficile allora non perdere la pace, restare saldi in Dio, confidare solo in lui! Accettare che Dio non intervenga è la prova della fede. Marco qui è spregiudicato: mentre gli altri sinottici pongono sulle labbra dei discepoli una compita preghiera (Mt 8,25; Lc 8,24), qui i discepoli chiamano Gesù “Maestro” (v. 38) e non “Signore”, e lo accusano di disinteressarsi di loro. Ma Gesù si manifesta come il Kyrios, come Dio che domina il caos, rappresentato biblicamente dal mare, come ci raffigura il libro di Giobbe nella prima Lettura (Gb 38,1.8-11): “Tu domini l’orgoglio del mare, tu plachi il tumulto dei suoi flutti” (Sl 89,10; cfr 107, 23-30). E compie un esorcismo: per il giudaismo. il mare e il vento hanno degli spiriti, e Gesù li caccia con lo stesso ordine dato all’indemoniato: “Taci!” (v. 39; cfr 1,25).
Poi rimprovera i discepoli: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?” (v. 40): Gesù ci insegna che tutte le nostre paure provengono dalla mancanza di fede. Le nostre ansie, le nostre preoccupazioni, la nostra angoscia, il pessimismo sono la nostra poca fede in lui. La seconda Lettura ci invita quindi ad essere “creature nuove, perché le cose vecchie sono passate” (2 Cor 5,17).
La serenità “sempre” è dunque il distintivo del cristiano, la cartina al tornasole di una sequela autentica, che riposa sull’amore di Dio e che a lui si affida. E una fede non a parole, ma nei fatti, è quella che riesce a tradurre nella concretezza della vita le verità professate con la bocca, è quella che cala il divino annuncio di liberazione nelle profondità del cuore, nei meandri della psiche, accendendo nell’intimo dell’uomo, in ogni circostanza, una festa senza fine.
La Fede Nella Tempesta
il:
– di:
Letture: Gb 38,1.8-11; 2 Cor 5,14-17; Mc 4,35-41
Nell’Evangelo di Marco, i miracoli occupano circa un terzo della narrazione (209 versetti su 666): sono in genere prodigi di guarigione o di resurrezione di morti, ma talora anche di dominio sulla natura. I miracoli sono la conseguenza della potenza di salvezza di Gesù, dello scopo della sua missione: egli è venuto per sconfiggere definitivamente il male e la morte, e la sua vittoria inizia proprio nel limite spazio-temporale della povera umanità ammalata che a lui accorre e della natura ostile. Perciò Marco li chiama dynamis, potenza (Mc 6,2.5.14; 9,39), e mai sèmeion, segno, o tèras, prodigio. I miracoli nei Vangeli non sono quindi, di per sè, segni propagandistici compiuti per dimostrare che Gesù è Dio, ma momenti rivelativi della divina sollecitudine per i sofferenti, della missione del Figlio di farci superare la nostra finitudine creaturale: restano infatti, nella Scrittura, come gesti in sè ambigui, che lasciano talora perplessi i testimoni, che di per sè non inducono gli astanti alla fede in Gesù (Gv 12,37). Anzi, Gesù ammonisce che “segni e portenti” potranno essere compiuti anche da “falsi cristi e falsi profeti” (Mc 13,22). Perciò Gesù rifiuta ogni segno ai farisei che gliene chiedono uno di prova (Mc 8,11-13). Si spiega allora perché il Signore spesso imponga il silenzio a quelli che guarisce (Mc 1,34; 3,12; 5,43; 7,36; 8,26). E si capisce l’insistenza della fede richiesta a chi viene guarito (Mc 5,34; 7,29; 9,22-24; 10,52): Gesù ribadisce che la salvezza totale viene solo dall’adesione a lui, e l’evento miracolo altro non è che un epifenomeno del totale annientamento del male che la sua incarnazione realizza.
Il Vangelo odierno ci presenta l’inizio del “Libretto dei miracoli” di Marco (4,35-6,6): siamo “in quel giorno”, il “giorno di IHWH”, il giorno della prova, “verso sera” (v. 35), quando ormai si avvicina l’ora delle tenebre. Si scatena la tempesta sul lago, ma Gesù, sulla barca, dorme: è il sonno di Dio, la sua assenza, esperienza di tutti i credenti (Sl 44,24; Is 51,9-10). È il momento della croce, il silenzio del sabato santo, il sonno di Cristo nel sepolcro. Com’è difficile allora non perdere la pace, restare saldi in Dio, confidare solo in lui! Accettare che Dio non intervenga è la prova della fede. Marco qui è spregiudicato: mentre gli altri sinottici pongono sulle labbra dei discepoli una compita preghiera (Mt 8,25; Lc 8,24), qui i discepoli chiamano Gesù “Maestro” (v. 38) e non “Signore”, e lo accusano di disinteressarsi di loro. Ma Gesù si manifesta come il Kyrios, come Dio che domina il caos, rappresentato biblicamente dal mare, come ci raffigura il libro di Giobbe nella prima Lettura (Gb 38,1.8-11): “Tu domini l’orgoglio del mare, tu plachi il tumulto dei suoi flutti” (Sl 89,10; cfr 107, 23-30). E compie un esorcismo: per il giudaismo. il mare e il vento hanno degli spiriti, e Gesù li caccia con lo stesso ordine dato all’indemoniato: “Taci!” (v. 39; cfr 1,25).
Poi rimprovera i discepoli: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?” (v. 40): Gesù ci insegna che tutte le nostre paure provengono dalla mancanza di fede. Le nostre ansie, le nostre preoccupazioni, la nostra angoscia, il pessimismo sono la nostra poca fede in lui. La seconda Lettura ci invita quindi ad essere “creature nuove, perché le cose vecchie sono passate” (2 Cor 5,17).
La serenità “sempre” è dunque il distintivo del cristiano, la cartina al tornasole di una sequela autentica, che riposa sull’amore di Dio e che a lui si affida. E una fede non a parole, ma nei fatti, è quella che riesce a tradurre nella concretezza della vita le verità professate con la bocca, è quella che cala il divino annuncio di liberazione nelle profondità del cuore, nei meandri della psiche, accendendo nell’intimo dell’uomo, in ogni circostanza, una festa senza fine.
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