Letture: Is 66,18b-21; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30
“Non chi dice: «Signore, Signore!»…”
Per la salvezza Gesù non richiede soltanto un’adesione formale a lui. La sequela del Maestro implica opere concrete di giustizia e di amore. Come esorta Giovanni: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). Il messaggio di Gesù in tal senso è chiarissimo.
Non basta una religiosità esteriore, meramente cultuale, ci ammonisce il Vangelo odierno (Lc 13,22-30).
Non basta neppure fare miracoli o profetare in nome di Cristo: occorre fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti… Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,12-23).
E fare la volontà del Padre significa l’attenzione concreta e fattiva verso i bisognosi. Dirà in proposito Giacomo: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2,8-26).
Per salvarsi non basta quindi la sola fede: la contraddizione tra la “salvezza per fede” di cui parla Paolo (Ef 2,8; Rm 3, 28; 4,2) e la “necessità delle opere” sostenuta da Giacomo (Gc 2,14-26) è solo apparente. Certamente non occorrono per la salvezza le opere delle Legge, basta Gesù Cristo: “Indipendentemente dalla Legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai profeti” (Rm 3,21). Ma al contempo aderire a Cristo è poter dire: “Non son più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20); e l’uomo nuovo che si realizza in Cristo produce il frutto dello Spirito, l’agape, la carità (1 Cor 13). Si potrebbe evitare subito ogni apparente contraddizione tra Paolo e Giacomo se quando Giacomo afferma: “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26), si sostituisce, nella comprensione, alla parola “opere” il termine “frutti”: “la fede senza frutti è morta”.
Gesù afferma a proposito della peccatrice: “Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7,47). Infatti, dirà Pietro, “la carità copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8).
L’universalità della salvezza
Anzi, secondo la parola di Gesù, tanti si salveranno solo perché avranno aiutato i poveri anche senza conoscere il Cristo: “Ogni volta che avete fatto una di queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Mt 25,40). Così come non avranno accesso alla salvezza molti che, pur non conoscendolo, non lo avranno servito nei bisognosi e nei sofferenti (Mt 25,44-46). Ecco perché, nella Prima Lettura, il Signore afferma: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue: essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18-21).
Spronati alla gioia
Queste letture ci sembrano severe, impegnative, esortanti a duri sforzi ascetici. In realtà, ci ricorda la Lettera agli Ebrei nella Seconda Lettura, sono solo correzioni che Dio, padre buono e tenero, fa a noi suoi figli, “per arrecare un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo di queste parole sono addestrati”. Sono cioè un invito a una vita di gioia, di pienezza, di realizzazione: perché Dio vuole che “camminiamo diritti con i nostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” (Eb 12,5-7.11-13), per procedere spediti e felici sulla via del Regno.
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Letture: Is 66,18b-21; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30
“Non chi dice: «Signore, Signore!»…”
Per la salvezza Gesù non richiede soltanto un’adesione formale a lui. La sequela del Maestro implica opere concrete di giustizia e di amore. Come esorta Giovanni: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). Il messaggio di Gesù in tal senso è chiarissimo.
Non basta una religiosità esteriore, meramente cultuale, ci ammonisce il Vangelo odierno (Lc 13,22-30).
Non basta neppure fare miracoli o profetare in nome di Cristo: occorre fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti… Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,12-23).
E fare la volontà del Padre significa l’attenzione concreta e fattiva verso i bisognosi. Dirà in proposito Giacomo: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2,8-26).
Per salvarsi non basta quindi la sola fede: la contraddizione tra la “salvezza per fede” di cui parla Paolo (Ef 2,8; Rm 3, 28; 4,2) e la “necessità delle opere” sostenuta da Giacomo (Gc 2,14-26) è solo apparente. Certamente non occorrono per la salvezza le opere delle Legge, basta Gesù Cristo: “Indipendentemente dalla Legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai profeti” (Rm 3,21). Ma al contempo aderire a Cristo è poter dire: “Non son più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20); e l’uomo nuovo che si realizza in Cristo produce il frutto dello Spirito, l’agape, la carità (1 Cor 13). Si potrebbe evitare subito ogni apparente contraddizione tra Paolo e Giacomo se quando Giacomo afferma: “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26), si sostituisce, nella comprensione, alla parola “opere” il termine “frutti”: “la fede senza frutti è morta”.
Gesù afferma a proposito della peccatrice: “Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7,47). Infatti, dirà Pietro, “la carità copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8).
L’universalità della salvezza
Anzi, secondo la parola di Gesù, tanti si salveranno solo perché avranno aiutato i poveri anche senza conoscere il Cristo: “Ogni volta che avete fatto una di queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Mt 25,40). Così come non avranno accesso alla salvezza molti che, pur non conoscendolo, non lo avranno servito nei bisognosi e nei sofferenti (Mt 25,44-46). Ecco perché, nella Prima Lettura, il Signore afferma: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue: essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18-21).
Spronati alla gioia
Queste letture ci sembrano severe, impegnative, esortanti a duri sforzi ascetici. In realtà, ci ricorda la Lettera agli Ebrei nella Seconda Lettura, sono solo correzioni che Dio, padre buono e tenero, fa a noi suoi figli, “per arrecare un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo di queste parole sono addestrati”. Sono cioè un invito a una vita di gioia, di pienezza, di realizzazione: perché Dio vuole che “camminiamo diritti con i nostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” (Eb 12,5-7.11-13), per procedere spediti e felici sulla via del Regno.
Domenica XXI Anno C
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Letture: Is 66,18b-21; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30
“Non chi dice: «Signore, Signore!»…”
Per la salvezza Gesù non richiede soltanto un’adesione formale a lui. La sequela del Maestro implica opere concrete di giustizia e di amore. Come esorta Giovanni: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). Il messaggio di Gesù in tal senso è chiarissimo.
Non basta una religiosità esteriore, meramente cultuale, ci ammonisce il Vangelo odierno (Lc 13,22-30).
Non basta neppure fare miracoli o profetare in nome di Cristo: occorre fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti… Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,12-23).
E fare la volontà del Padre significa l’attenzione concreta e fattiva verso i bisognosi. Dirà in proposito Giacomo: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2,8-26).
Per salvarsi non basta quindi la sola fede: la contraddizione tra la “salvezza per fede” di cui parla Paolo (Ef 2,8; Rm 3, 28; 4,2) e la “necessità delle opere” sostenuta da Giacomo (Gc 2,14-26) è solo apparente. Certamente non occorrono per la salvezza le opere delle Legge, basta Gesù Cristo: “Indipendentemente dalla Legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai profeti” (Rm 3,21). Ma al contempo aderire a Cristo è poter dire: “Non son più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20); e l’uomo nuovo che si realizza in Cristo produce il frutto dello Spirito, l’agape, la carità (1 Cor 13). Si potrebbe evitare subito ogni apparente contraddizione tra Paolo e Giacomo se quando Giacomo afferma: “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26), si sostituisce, nella comprensione, alla parola “opere” il termine “frutti”: “la fede senza frutti è morta”.
Gesù afferma a proposito della peccatrice: “Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7,47). Infatti, dirà Pietro, “la carità copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8).
L’universalità della salvezza
Anzi, secondo la parola di Gesù, tanti si salveranno solo perché avranno aiutato i poveri anche senza conoscere il Cristo: “Ogni volta che avete fatto una di queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Mt 25,40). Così come non avranno accesso alla salvezza molti che, pur non conoscendolo, non lo avranno servito nei bisognosi e nei sofferenti (Mt 25,44-46). Ecco perché, nella Prima Lettura, il Signore afferma: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue: essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18-21).
Spronati alla gioia
Queste letture ci sembrano severe, impegnative, esortanti a duri sforzi ascetici. In realtà, ci ricorda la Lettera agli Ebrei nella Seconda Lettura, sono solo correzioni che Dio, padre buono e tenero, fa a noi suoi figli, “per arrecare un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo di queste parole sono addestrati”. Sono cioè un invito a una vita di gioia, di pienezza, di realizzazione: perché Dio vuole che “camminiamo diritti con i nostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” (Eb 12,5-7.11-13), per procedere spediti e felici sulla via del Regno.
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Letture: Is 66,18b-21; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30
“Non chi dice: «Signore, Signore!»…”
Per la salvezza Gesù non richiede soltanto un’adesione formale a lui. La sequela del Maestro implica opere concrete di giustizia e di amore. Come esorta Giovanni: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). Il messaggio di Gesù in tal senso è chiarissimo.
Non basta una religiosità esteriore, meramente cultuale, ci ammonisce il Vangelo odierno (Lc 13,22-30).
Non basta neppure fare miracoli o profetare in nome di Cristo: occorre fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti… Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,12-23).
E fare la volontà del Padre significa l’attenzione concreta e fattiva verso i bisognosi. Dirà in proposito Giacomo: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2,8-26).
Per salvarsi non basta quindi la sola fede: la contraddizione tra la “salvezza per fede” di cui parla Paolo (Ef 2,8; Rm 3, 28; 4,2) e la “necessità delle opere” sostenuta da Giacomo (Gc 2,14-26) è solo apparente. Certamente non occorrono per la salvezza le opere delle Legge, basta Gesù Cristo: “Indipendentemente dalla Legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai profeti” (Rm 3,21). Ma al contempo aderire a Cristo è poter dire: “Non son più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20); e l’uomo nuovo che si realizza in Cristo produce il frutto dello Spirito, l’agape, la carità (1 Cor 13). Si potrebbe evitare subito ogni apparente contraddizione tra Paolo e Giacomo se quando Giacomo afferma: “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26), si sostituisce, nella comprensione, alla parola “opere” il termine “frutti”: “la fede senza frutti è morta”.
Gesù afferma a proposito della peccatrice: “Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7,47). Infatti, dirà Pietro, “la carità copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8).
L’universalità della salvezza
Anzi, secondo la parola di Gesù, tanti si salveranno solo perché avranno aiutato i poveri anche senza conoscere il Cristo: “Ogni volta che avete fatto una di queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Mt 25,40). Così come non avranno accesso alla salvezza molti che, pur non conoscendolo, non lo avranno servito nei bisognosi e nei sofferenti (Mt 25,44-46). Ecco perché, nella Prima Lettura, il Signore afferma: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue: essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18-21).
Spronati alla gioia
Queste letture ci sembrano severe, impegnative, esortanti a duri sforzi ascetici. In realtà, ci ricorda la Lettera agli Ebrei nella Seconda Lettura, sono solo correzioni che Dio, padre buono e tenero, fa a noi suoi figli, “per arrecare un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo di queste parole sono addestrati”. Sono cioè un invito a una vita di gioia, di pienezza, di realizzazione: perché Dio vuole che “camminiamo diritti con i nostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” (Eb 12,5-7.11-13), per procedere spediti e felici sulla via del Regno.
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