LUCA 17, 5-10
5 Gli apostoli dissero al Signore: 6 «Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.
7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? 8 Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? 9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
Da: C. MIGLIETTA, L’INGIUSTIZIA DI DIO e altre anomalie del suo Amore…, Gribaudi, Milano, 2013
SERVI INUTILI O SERVI COCCOLATI?
In Luca ci sono due parabole sul rapporto tra padrone e servi che sono tra loro contraddittorie. La prima in genere ci lascia sconcertati: “Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: <<Vieni subito e mettiti a tavola?>>. Non gli dirà piuttosto: <<Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu>>? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: <<Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare>>“ (Lc 17,7-10).
E i diritti dei lavoratori?
Ci sono parecchie obiezioni da muovere a questo ragionamento. La prima è che l’atteggiamento del padrone sembra perlomeno “antisindacale”: dopo una giornata di lavoro, per di più duro come quello di arare o di portare le greggi al pascolo, il diritto alla “pausa mensa” appare proprio sacrosanto.
Secondo: il padrone tratta i servi davvero… da schiavi, mentre ogni buona logica di gestione del personale ormai ci sottolinea come sia bene avere rapporti cordiali con i dipendenti, cercando di metterli il più possibile a loro agio, anche ai fini di una migliore produttività.
Terzo: non si valorizzano certo le risorse umane se, invece di far partecipi i lavoratori del “Piano Aziendale”, li si obbliga a definirsi “inutili”: altro che implementare la loro autostima!
“La parabola, per quanto teologicamente ineccepibile, lascia un’impressione amara, quasi che Dio si comporti con l’uomo da padrone o tratti la creatura prediletta da schiavo. L’autore è cosciente di tale pericolo ed evita per questo di nominarlo direttamente. Ad ogni modo il paragone a cui ricorre è del tutto infelice, non quadra con nessuna delle precedenti immagini con cui si è sforzato di presentare o di delineare i rapporti e i comportamenti di Dio con l’uomo. Egli è l’amico che si può disturbare a tutte le ore, anche di notte1, il buon pastore2, il padre del figliol prodigo3, ecc…. Il discorso, applicato alla lettera, diventa insostenibile, paradossale. E’ difficile supporre che l’uomo che ha assolto i suoi compiti davanti a Dio non abbia raggiunto maggior vicinanza e amicizia con lui. Si può tutt’al più concludere che ciò non sia dovuto in termini contrattuali, a rigore di giustizia, ma per grazia” (O. da Spinetoli4).
Anche Papa Francesco aveva sottolineato che nella Chiesa tutti siamo utili: “Nessuno è inutile nella Chiesa e se qualcuno a volte dice ad un altro: <<Vai a casa, tu sei inutile>>, questo non è vero, perché nessuno è inutile nella Chiesa, tutti siamo necessari per costruire questo Tempio che è la Chiesa […]. Nessuno è anonimo: tutti formiamo e costruiamo la Chiesa. Questo ci invita anche a riflettere sul fatto che se manca il mattone della nostra vita cristiana, manca qualcosa alla bellezza della Chiesa.”5.
La gratuità della salvezza
Il brano è allora certamente un richiamo forte all’umiltà, alla modestia, al nascondimento. Ma è anche sottolineatura, ancora una volta, della gratuità della salvezza, che giunge non per le nostre opere, ma solo per la grazia di Dio. Ciò che ciascuno fa nel Regno di Dio non ci permette di accampare diritti o privilegi, è solo risposta al “comando” (Lc 17,10) di Dio, al suo disegno di salvezza, per cui Dio ci riempie del suo amore e vuole che ne trabocchiamo ai fratelli, portando frutti di operosità e di bene.
La traduzione: “Siamo servi inutili” non è esatta: “achrèioi” non significa che essi non hanno nessuna importanza, ma che sono “senza utile” (“a-chrèios”), cioè senza guadagno, gratuiti. “Significa che non facciamo il nostro lavoro per guadagno o per utile, ma per dovere e gratuitamente: semplicemente perché siamo suoi e apparteniamo a lui […]. Il ministero apostolico è di sua natura gratuito, perché rivela la fonte da cui scaturisce: <<Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date>> (Mt 10,8). Per Paolo la ricompensa più alta è predicare gratuitamente il Vangelo6. L’apostolo è associato al ministero di grazia e di misericordia del suo Signore per il mondo. Origine del suo servizio è la fede, come esperienza personale di colui che lo ha amato e ha dato se stesso per lui7. Per questo, a differenza del fratello maggiore, non è più nella logica del dare/avere, ma in quella del dono gratuito […]. Non si tratta di doverismo o di interesse: l’amore sperimentato lo rende libero di servire come il suo Signore” (S. Fausti8).
Questa parabola esprime quindi in modo al solito paradossale la nostra totale dipendenza dall’iniziativa divina.
Un Dio che si fa Servo
Ma il rapporto tra Dio e noi è delineato da un’altra parabola, apparentemente antitetica alla prima: “Siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,36-37).
Qui invece stupisce l’eccessiva bontà del padrone. Egli è lo sposo che torna dalle nozze. Ci si aspetterebbe che venga trattato con ogni riguardo: è il festeggiato, a lui vanno tutte le attenzioni e gli onori. Invece questo padrone-sposo si mette a fare il servo e, dismesso l’abito nuziale e indossata la divisa del lavoratore, serve a tavola i suoi dipendenti.
Non è casuale che il padrone sia “lo Sposo”: la nuzialità è una delle metafore preferite dalla Scrittura per esprimere l’amore di Dio per il suo popolo e per ogni singolo uomo. Solo un Dio amante può rifiutare il dovuto servizio degli uomini e farsi “Servo”.
È un comportamento sconcertante, sbalorditivo, che ci viene spontaneo rifiutare per la sua grandezza: come fa Pietro, quando Gesù, nell’ultima cena, “si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (Gv 13,4-5). Il lavare i piedi al padrone era riservato a uno schiavo pagano9: era un gesto di tale abbassamento che, ci dice il Midrash10, non poteva essere richiesto nemmeno a uno schiavo ebreo. Oppure era un gesto di immenso amore: poteva essere praticato dalla moglie nei confronti del marito o anche dalle figlie verso il loro padre. In un’opera giudaica alessandrina si racconta che Asenath, promessa sposa a Giuseppe, figlio di Giacobbe, e che diventerà la madre di Efraim e di Manasse11, si offre di lavare i piedi del futuro marito: ma Giuseppe si rifiuta che la sua donna faccia un gesto da schiava. Allora Asenath ribatte dolcemente: “I tuoi piedi sono i miei piedi […]. Nessun altro laverà i tuoi piedi”. Lavare i piedi, infine, poteva essere un segno di profonda devozione, e talora con questo segno i discepoli omaggiavano il loro Maestro o Rabbi.
La lavanda dei piedi avveniva quando si entrava in casa, non durante il pasto. E il rituale della cena pasquale non prevede nessuna lavanda dei piedi, ma solo il lavarsi delle mani dopo il rito della seconda coppa. Gesù quindi compie un gesto irrituale e inaspettato, che scatena la reazione di Pietro, che allibito dichiara: “Non mi laverai mai i piedi!” (Gv 13,8).
Qui abbiamo non solo un gesto esemplare del servizio che i credenti dovranno vivere come dimensione fondamentale della loro Fede: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Qui abbiamo un’immensa rivelazione teologica: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1): Dio ama i suoi “eìs tèlos”, “sino alla fine”. Come dice Giovanni Crisostomo, “sino alla fine” ha valenza temporale, indicando che tutta la vita di Gesù fu amore, ma anche significato quantitativo: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,3). Gesù ci rivela quindi che Dio è amore totale.
I Musulmani chiamano Dio con novantanove nomi, che corrispondono a definizioni bellissime che troviamo anche nell’Antico Testamento: il Misericordioso, il Pietoso, il Santo, la Pace, il Custode, il Potente, il Creatore, il Perdonatore, il Munifico, il Sostentatore, il Sublime, il Generoso, il Perfetto, il Dolcissimo […]. Nelle confraternite mistiche islamiche si dice che il centesimo Nome di Dio sarà noto solo agli eletti12. In Gesù si rivela questo Nome che riempie e compie tutti gli altri: “Dio è Amore” (1 Gv 4,8). “Dio si rivela in quello che costituisce l’aspetto più profondo della sua divinità e manifesta la sua gloria, proprio facendosi nostro servitore, lavando i piedi alle sue creature” (H. U. Von Balthasar13). “Dio non è il sommo padrone che possiede tutto. Dio è il più grande povero che non possiede nulla… Ha donato tutto eternamente e non può donare di più, perché questo dono lo costituisce nel suo essere persona fondato unicamente sulla carità” (M. Zundel14).
Un Dio “capovolto”
La rivelazione dell’episodio della lavanda dei piedi è anche cristologica: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina […], spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,5-8). Fece “kènosis”, svuotamento, rinuncia totale: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27).
Maggioni afferma che la lavanda dei piedi non è semplicemente l’icona del servizio, ma quella del “Dio capovolto”, che non vuole essere servito ma che nel Figlio si fa Servo. “Gesù apre gli apostoli a riconoscere che la suprema dedizione di Dio agli uomini non deve essere cercata in una vittoria conseguita nella soppressione dei nemici e nell’affermazione di sé, come essi continuano ad aspettarsi fino all’ultimo momento, ma in quella vittoria della carità che consiste nel portare fino alle estreme conseguenze il dono di sé anche di fronte al rifiuto dell’altro […]. Qualsiasi altra rappresentazione non testimonierebbe il Padre, perché ciò che definisce nel più profondo la sua identità di <<fons et origo totius divinitatis>> è l’essere pura, gratuita, incondizionata oblazione di sé” (A. Bozzolo15).
Lasciamoci pervadere dall’emozione con cui Romano il Melode, diacono siriano del VI secolo, canta la lavanda dei piedi: “Pietro trattenne l’Unigenito quando questi si presentava per la lavanda dei piedi e disse: <<Signore! Signore! No, non mi laverai i piedi>>. Il catino era a terra già riempito: il Salvatore stava in piedi, il Redentore portava intorno ai fianchi il telo, come uno schiavo. Le schiere degli angeli guardavano dall’alto del cielo e gettarono grida di stupore, invece lo spudorato (Giuda) non ne fu commosso, al contrario si voltò contro di lui! Inibiti da timore, gli spiriti di fuoco stupivano quando i loro cori invisibili vedevano l’incomprensibile che si piegava spontaneamente a servire il fango (cioè l’uomo plasmato dalla polvere del suolo). Gabriele diceva in apprensione: <<Angeli santi, compagni miei, guardate, stupitevi! Pietro tende il piede e Colui che è nato da un seno verginale lo prende e lo lava. E non lava soltanto Pietro, ma con lui anche Giuda. Guardate la grande benevolenza del Creatore ed il contegno del Plasmatore nei confronti delle proprie creature. Essi siedono a tavola ed egli sta in piedi; essi si lasciano nutrire ed egli li serve; si lasciano lavare ed egli li asciuga. Ed i piedi fatti di polvere non restano dissolti tra le mani di fuoco!>>”16.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.
Fonte dell’articolo
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Vangelo di domenica 05 ottobre: XXVII domenica anno C: Luca 17, 5-10
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LUCA 17, 5-10
5 Gli apostoli dissero al Signore: 6 «Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.
7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? 8 Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? 9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
Da: C. MIGLIETTA, L’INGIUSTIZIA DI DIO e altre anomalie del suo Amore…, Gribaudi, Milano, 2013
SERVI INUTILI O SERVI COCCOLATI?
In Luca ci sono due parabole sul rapporto tra padrone e servi che sono tra loro contraddittorie. La prima in genere ci lascia sconcertati: “Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: <<Vieni subito e mettiti a tavola?>>. Non gli dirà piuttosto: <<Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu>>? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: <<Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare>>“ (Lc 17,7-10).
E i diritti dei lavoratori?
Ci sono parecchie obiezioni da muovere a questo ragionamento. La prima è che l’atteggiamento del padrone sembra perlomeno “antisindacale”: dopo una giornata di lavoro, per di più duro come quello di arare o di portare le greggi al pascolo, il diritto alla “pausa mensa” appare proprio sacrosanto.
Secondo: il padrone tratta i servi davvero… da schiavi, mentre ogni buona logica di gestione del personale ormai ci sottolinea come sia bene avere rapporti cordiali con i dipendenti, cercando di metterli il più possibile a loro agio, anche ai fini di una migliore produttività.
Terzo: non si valorizzano certo le risorse umane se, invece di far partecipi i lavoratori del “Piano Aziendale”, li si obbliga a definirsi “inutili”: altro che implementare la loro autostima!
“La parabola, per quanto teologicamente ineccepibile, lascia un’impressione amara, quasi che Dio si comporti con l’uomo da padrone o tratti la creatura prediletta da schiavo. L’autore è cosciente di tale pericolo ed evita per questo di nominarlo direttamente. Ad ogni modo il paragone a cui ricorre è del tutto infelice, non quadra con nessuna delle precedenti immagini con cui si è sforzato di presentare o di delineare i rapporti e i comportamenti di Dio con l’uomo. Egli è l’amico che si può disturbare a tutte le ore, anche di notte1, il buon pastore2, il padre del figliol prodigo3, ecc…. Il discorso, applicato alla lettera, diventa insostenibile, paradossale. E’ difficile supporre che l’uomo che ha assolto i suoi compiti davanti a Dio non abbia raggiunto maggior vicinanza e amicizia con lui. Si può tutt’al più concludere che ciò non sia dovuto in termini contrattuali, a rigore di giustizia, ma per grazia” (O. da Spinetoli4).
Anche Papa Francesco aveva sottolineato che nella Chiesa tutti siamo utili: “Nessuno è inutile nella Chiesa e se qualcuno a volte dice ad un altro: <<Vai a casa, tu sei inutile>>, questo non è vero, perché nessuno è inutile nella Chiesa, tutti siamo necessari per costruire questo Tempio che è la Chiesa […]. Nessuno è anonimo: tutti formiamo e costruiamo la Chiesa. Questo ci invita anche a riflettere sul fatto che se manca il mattone della nostra vita cristiana, manca qualcosa alla bellezza della Chiesa.”5.
La gratuità della salvezza
Il brano è allora certamente un richiamo forte all’umiltà, alla modestia, al nascondimento. Ma è anche sottolineatura, ancora una volta, della gratuità della salvezza, che giunge non per le nostre opere, ma solo per la grazia di Dio. Ciò che ciascuno fa nel Regno di Dio non ci permette di accampare diritti o privilegi, è solo risposta al “comando” (Lc 17,10) di Dio, al suo disegno di salvezza, per cui Dio ci riempie del suo amore e vuole che ne trabocchiamo ai fratelli, portando frutti di operosità e di bene.
La traduzione: “Siamo servi inutili” non è esatta: “achrèioi” non significa che essi non hanno nessuna importanza, ma che sono “senza utile” (“a-chrèios”), cioè senza guadagno, gratuiti. “Significa che non facciamo il nostro lavoro per guadagno o per utile, ma per dovere e gratuitamente: semplicemente perché siamo suoi e apparteniamo a lui […]. Il ministero apostolico è di sua natura gratuito, perché rivela la fonte da cui scaturisce: <<Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date>> (Mt 10,8). Per Paolo la ricompensa più alta è predicare gratuitamente il Vangelo6. L’apostolo è associato al ministero di grazia e di misericordia del suo Signore per il mondo. Origine del suo servizio è la fede, come esperienza personale di colui che lo ha amato e ha dato se stesso per lui7. Per questo, a differenza del fratello maggiore, non è più nella logica del dare/avere, ma in quella del dono gratuito […]. Non si tratta di doverismo o di interesse: l’amore sperimentato lo rende libero di servire come il suo Signore” (S. Fausti8).
Questa parabola esprime quindi in modo al solito paradossale la nostra totale dipendenza dall’iniziativa divina.
Un Dio che si fa Servo
Ma il rapporto tra Dio e noi è delineato da un’altra parabola, apparentemente antitetica alla prima: “Siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,36-37).
Qui invece stupisce l’eccessiva bontà del padrone. Egli è lo sposo che torna dalle nozze. Ci si aspetterebbe che venga trattato con ogni riguardo: è il festeggiato, a lui vanno tutte le attenzioni e gli onori. Invece questo padrone-sposo si mette a fare il servo e, dismesso l’abito nuziale e indossata la divisa del lavoratore, serve a tavola i suoi dipendenti.
Non è casuale che il padrone sia “lo Sposo”: la nuzialità è una delle metafore preferite dalla Scrittura per esprimere l’amore di Dio per il suo popolo e per ogni singolo uomo. Solo un Dio amante può rifiutare il dovuto servizio degli uomini e farsi “Servo”.
È un comportamento sconcertante, sbalorditivo, che ci viene spontaneo rifiutare per la sua grandezza: come fa Pietro, quando Gesù, nell’ultima cena, “si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (Gv 13,4-5). Il lavare i piedi al padrone era riservato a uno schiavo pagano9: era un gesto di tale abbassamento che, ci dice il Midrash10, non poteva essere richiesto nemmeno a uno schiavo ebreo. Oppure era un gesto di immenso amore: poteva essere praticato dalla moglie nei confronti del marito o anche dalle figlie verso il loro padre. In un’opera giudaica alessandrina si racconta che Asenath, promessa sposa a Giuseppe, figlio di Giacobbe, e che diventerà la madre di Efraim e di Manasse11, si offre di lavare i piedi del futuro marito: ma Giuseppe si rifiuta che la sua donna faccia un gesto da schiava. Allora Asenath ribatte dolcemente: “I tuoi piedi sono i miei piedi […]. Nessun altro laverà i tuoi piedi”. Lavare i piedi, infine, poteva essere un segno di profonda devozione, e talora con questo segno i discepoli omaggiavano il loro Maestro o Rabbi.
La lavanda dei piedi avveniva quando si entrava in casa, non durante il pasto. E il rituale della cena pasquale non prevede nessuna lavanda dei piedi, ma solo il lavarsi delle mani dopo il rito della seconda coppa. Gesù quindi compie un gesto irrituale e inaspettato, che scatena la reazione di Pietro, che allibito dichiara: “Non mi laverai mai i piedi!” (Gv 13,8).
Qui abbiamo non solo un gesto esemplare del servizio che i credenti dovranno vivere come dimensione fondamentale della loro Fede: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Qui abbiamo un’immensa rivelazione teologica: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1): Dio ama i suoi “eìs tèlos”, “sino alla fine”. Come dice Giovanni Crisostomo, “sino alla fine” ha valenza temporale, indicando che tutta la vita di Gesù fu amore, ma anche significato quantitativo: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,3). Gesù ci rivela quindi che Dio è amore totale.
I Musulmani chiamano Dio con novantanove nomi, che corrispondono a definizioni bellissime che troviamo anche nell’Antico Testamento: il Misericordioso, il Pietoso, il Santo, la Pace, il Custode, il Potente, il Creatore, il Perdonatore, il Munifico, il Sostentatore, il Sublime, il Generoso, il Perfetto, il Dolcissimo […]. Nelle confraternite mistiche islamiche si dice che il centesimo Nome di Dio sarà noto solo agli eletti12. In Gesù si rivela questo Nome che riempie e compie tutti gli altri: “Dio è Amore” (1 Gv 4,8). “Dio si rivela in quello che costituisce l’aspetto più profondo della sua divinità e manifesta la sua gloria, proprio facendosi nostro servitore, lavando i piedi alle sue creature” (H. U. Von Balthasar13). “Dio non è il sommo padrone che possiede tutto. Dio è il più grande povero che non possiede nulla… Ha donato tutto eternamente e non può donare di più, perché questo dono lo costituisce nel suo essere persona fondato unicamente sulla carità” (M. Zundel14).
Un Dio “capovolto”
La rivelazione dell’episodio della lavanda dei piedi è anche cristologica: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina […], spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,5-8). Fece “kènosis”, svuotamento, rinuncia totale: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27).
Maggioni afferma che la lavanda dei piedi non è semplicemente l’icona del servizio, ma quella del “Dio capovolto”, che non vuole essere servito ma che nel Figlio si fa Servo. “Gesù apre gli apostoli a riconoscere che la suprema dedizione di Dio agli uomini non deve essere cercata in una vittoria conseguita nella soppressione dei nemici e nell’affermazione di sé, come essi continuano ad aspettarsi fino all’ultimo momento, ma in quella vittoria della carità che consiste nel portare fino alle estreme conseguenze il dono di sé anche di fronte al rifiuto dell’altro […]. Qualsiasi altra rappresentazione non testimonierebbe il Padre, perché ciò che definisce nel più profondo la sua identità di <<fons et origo totius divinitatis>> è l’essere pura, gratuita, incondizionata oblazione di sé” (A. Bozzolo15).
Lasciamoci pervadere dall’emozione con cui Romano il Melode, diacono siriano del VI secolo, canta la lavanda dei piedi: “Pietro trattenne l’Unigenito quando questi si presentava per la lavanda dei piedi e disse: <<Signore! Signore! No, non mi laverai i piedi>>. Il catino era a terra già riempito: il Salvatore stava in piedi, il Redentore portava intorno ai fianchi il telo, come uno schiavo. Le schiere degli angeli guardavano dall’alto del cielo e gettarono grida di stupore, invece lo spudorato (Giuda) non ne fu commosso, al contrario si voltò contro di lui! Inibiti da timore, gli spiriti di fuoco stupivano quando i loro cori invisibili vedevano l’incomprensibile che si piegava spontaneamente a servire il fango (cioè l’uomo plasmato dalla polvere del suolo). Gabriele diceva in apprensione: <<Angeli santi, compagni miei, guardate, stupitevi! Pietro tende il piede e Colui che è nato da un seno verginale lo prende e lo lava. E non lava soltanto Pietro, ma con lui anche Giuda. Guardate la grande benevolenza del Creatore ed il contegno del Plasmatore nei confronti delle proprie creature. Essi siedono a tavola ed egli sta in piedi; essi si lasciano nutrire ed egli li serve; si lasciano lavare ed egli li asciuga. Ed i piedi fatti di polvere non restano dissolti tra le mani di fuoco!>>”16.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.
Fonte dell’articolo
spazio + spadoni
LUCA 17, 5-10
5 Gli apostoli dissero al Signore: 6 «Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.
7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? 8 Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? 9 Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
Da: C. MIGLIETTA, L’INGIUSTIZIA DI DIO e altre anomalie del suo Amore…, Gribaudi, Milano, 2013
SERVI INUTILI O SERVI COCCOLATI?
In Luca ci sono due parabole sul rapporto tra padrone e servi che sono tra loro contraddittorie. La prima in genere ci lascia sconcertati: “Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: <<Vieni subito e mettiti a tavola?>>. Non gli dirà piuttosto: <<Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu>>? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: <<Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare>>“ (Lc 17,7-10).
E i diritti dei lavoratori?
Ci sono parecchie obiezioni da muovere a questo ragionamento. La prima è che l’atteggiamento del padrone sembra perlomeno “antisindacale”: dopo una giornata di lavoro, per di più duro come quello di arare o di portare le greggi al pascolo, il diritto alla “pausa mensa” appare proprio sacrosanto.
Secondo: il padrone tratta i servi davvero… da schiavi, mentre ogni buona logica di gestione del personale ormai ci sottolinea come sia bene avere rapporti cordiali con i dipendenti, cercando di metterli il più possibile a loro agio, anche ai fini di una migliore produttività.
Terzo: non si valorizzano certo le risorse umane se, invece di far partecipi i lavoratori del “Piano Aziendale”, li si obbliga a definirsi “inutili”: altro che implementare la loro autostima!
“La parabola, per quanto teologicamente ineccepibile, lascia un’impressione amara, quasi che Dio si comporti con l’uomo da padrone o tratti la creatura prediletta da schiavo. L’autore è cosciente di tale pericolo ed evita per questo di nominarlo direttamente. Ad ogni modo il paragone a cui ricorre è del tutto infelice, non quadra con nessuna delle precedenti immagini con cui si è sforzato di presentare o di delineare i rapporti e i comportamenti di Dio con l’uomo. Egli è l’amico che si può disturbare a tutte le ore, anche di notte1, il buon pastore2, il padre del figliol prodigo3, ecc…. Il discorso, applicato alla lettera, diventa insostenibile, paradossale. E’ difficile supporre che l’uomo che ha assolto i suoi compiti davanti a Dio non abbia raggiunto maggior vicinanza e amicizia con lui. Si può tutt’al più concludere che ciò non sia dovuto in termini contrattuali, a rigore di giustizia, ma per grazia” (O. da Spinetoli4).
Anche Papa Francesco aveva sottolineato che nella Chiesa tutti siamo utili: “Nessuno è inutile nella Chiesa e se qualcuno a volte dice ad un altro: <<Vai a casa, tu sei inutile>>, questo non è vero, perché nessuno è inutile nella Chiesa, tutti siamo necessari per costruire questo Tempio che è la Chiesa […]. Nessuno è anonimo: tutti formiamo e costruiamo la Chiesa. Questo ci invita anche a riflettere sul fatto che se manca il mattone della nostra vita cristiana, manca qualcosa alla bellezza della Chiesa.”5.
La gratuità della salvezza
Il brano è allora certamente un richiamo forte all’umiltà, alla modestia, al nascondimento. Ma è anche sottolineatura, ancora una volta, della gratuità della salvezza, che giunge non per le nostre opere, ma solo per la grazia di Dio. Ciò che ciascuno fa nel Regno di Dio non ci permette di accampare diritti o privilegi, è solo risposta al “comando” (Lc 17,10) di Dio, al suo disegno di salvezza, per cui Dio ci riempie del suo amore e vuole che ne trabocchiamo ai fratelli, portando frutti di operosità e di bene.
La traduzione: “Siamo servi inutili” non è esatta: “achrèioi” non significa che essi non hanno nessuna importanza, ma che sono “senza utile” (“a-chrèios”), cioè senza guadagno, gratuiti. “Significa che non facciamo il nostro lavoro per guadagno o per utile, ma per dovere e gratuitamente: semplicemente perché siamo suoi e apparteniamo a lui […]. Il ministero apostolico è di sua natura gratuito, perché rivela la fonte da cui scaturisce: <<Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date>> (Mt 10,8). Per Paolo la ricompensa più alta è predicare gratuitamente il Vangelo6. L’apostolo è associato al ministero di grazia e di misericordia del suo Signore per il mondo. Origine del suo servizio è la fede, come esperienza personale di colui che lo ha amato e ha dato se stesso per lui7. Per questo, a differenza del fratello maggiore, non è più nella logica del dare/avere, ma in quella del dono gratuito […]. Non si tratta di doverismo o di interesse: l’amore sperimentato lo rende libero di servire come il suo Signore” (S. Fausti8).
Questa parabola esprime quindi in modo al solito paradossale la nostra totale dipendenza dall’iniziativa divina.
Un Dio che si fa Servo
Ma il rapporto tra Dio e noi è delineato da un’altra parabola, apparentemente antitetica alla prima: “Siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,36-37).
Qui invece stupisce l’eccessiva bontà del padrone. Egli è lo sposo che torna dalle nozze. Ci si aspetterebbe che venga trattato con ogni riguardo: è il festeggiato, a lui vanno tutte le attenzioni e gli onori. Invece questo padrone-sposo si mette a fare il servo e, dismesso l’abito nuziale e indossata la divisa del lavoratore, serve a tavola i suoi dipendenti.
Non è casuale che il padrone sia “lo Sposo”: la nuzialità è una delle metafore preferite dalla Scrittura per esprimere l’amore di Dio per il suo popolo e per ogni singolo uomo. Solo un Dio amante può rifiutare il dovuto servizio degli uomini e farsi “Servo”.
È un comportamento sconcertante, sbalorditivo, che ci viene spontaneo rifiutare per la sua grandezza: come fa Pietro, quando Gesù, nell’ultima cena, “si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (Gv 13,4-5). Il lavare i piedi al padrone era riservato a uno schiavo pagano9: era un gesto di tale abbassamento che, ci dice il Midrash10, non poteva essere richiesto nemmeno a uno schiavo ebreo. Oppure era un gesto di immenso amore: poteva essere praticato dalla moglie nei confronti del marito o anche dalle figlie verso il loro padre. In un’opera giudaica alessandrina si racconta che Asenath, promessa sposa a Giuseppe, figlio di Giacobbe, e che diventerà la madre di Efraim e di Manasse11, si offre di lavare i piedi del futuro marito: ma Giuseppe si rifiuta che la sua donna faccia un gesto da schiava. Allora Asenath ribatte dolcemente: “I tuoi piedi sono i miei piedi […]. Nessun altro laverà i tuoi piedi”. Lavare i piedi, infine, poteva essere un segno di profonda devozione, e talora con questo segno i discepoli omaggiavano il loro Maestro o Rabbi.
La lavanda dei piedi avveniva quando si entrava in casa, non durante il pasto. E il rituale della cena pasquale non prevede nessuna lavanda dei piedi, ma solo il lavarsi delle mani dopo il rito della seconda coppa. Gesù quindi compie un gesto irrituale e inaspettato, che scatena la reazione di Pietro, che allibito dichiara: “Non mi laverai mai i piedi!” (Gv 13,8).
Qui abbiamo non solo un gesto esemplare del servizio che i credenti dovranno vivere come dimensione fondamentale della loro Fede: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Qui abbiamo un’immensa rivelazione teologica: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1): Dio ama i suoi “eìs tèlos”, “sino alla fine”. Come dice Giovanni Crisostomo, “sino alla fine” ha valenza temporale, indicando che tutta la vita di Gesù fu amore, ma anche significato quantitativo: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,3). Gesù ci rivela quindi che Dio è amore totale.
I Musulmani chiamano Dio con novantanove nomi, che corrispondono a definizioni bellissime che troviamo anche nell’Antico Testamento: il Misericordioso, il Pietoso, il Santo, la Pace, il Custode, il Potente, il Creatore, il Perdonatore, il Munifico, il Sostentatore, il Sublime, il Generoso, il Perfetto, il Dolcissimo […]. Nelle confraternite mistiche islamiche si dice che il centesimo Nome di Dio sarà noto solo agli eletti12. In Gesù si rivela questo Nome che riempie e compie tutti gli altri: “Dio è Amore” (1 Gv 4,8). “Dio si rivela in quello che costituisce l’aspetto più profondo della sua divinità e manifesta la sua gloria, proprio facendosi nostro servitore, lavando i piedi alle sue creature” (H. U. Von Balthasar13). “Dio non è il sommo padrone che possiede tutto. Dio è il più grande povero che non possiede nulla… Ha donato tutto eternamente e non può donare di più, perché questo dono lo costituisce nel suo essere persona fondato unicamente sulla carità” (M. Zundel14).
Un Dio “capovolto”
La rivelazione dell’episodio della lavanda dei piedi è anche cristologica: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina […], spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,5-8). Fece “kènosis”, svuotamento, rinuncia totale: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27).
Maggioni afferma che la lavanda dei piedi non è semplicemente l’icona del servizio, ma quella del “Dio capovolto”, che non vuole essere servito ma che nel Figlio si fa Servo. “Gesù apre gli apostoli a riconoscere che la suprema dedizione di Dio agli uomini non deve essere cercata in una vittoria conseguita nella soppressione dei nemici e nell’affermazione di sé, come essi continuano ad aspettarsi fino all’ultimo momento, ma in quella vittoria della carità che consiste nel portare fino alle estreme conseguenze il dono di sé anche di fronte al rifiuto dell’altro […]. Qualsiasi altra rappresentazione non testimonierebbe il Padre, perché ciò che definisce nel più profondo la sua identità di <<fons et origo totius divinitatis>> è l’essere pura, gratuita, incondizionata oblazione di sé” (A. Bozzolo15).
Lasciamoci pervadere dall’emozione con cui Romano il Melode, diacono siriano del VI secolo, canta la lavanda dei piedi: “Pietro trattenne l’Unigenito quando questi si presentava per la lavanda dei piedi e disse: <<Signore! Signore! No, non mi laverai i piedi>>. Il catino era a terra già riempito: il Salvatore stava in piedi, il Redentore portava intorno ai fianchi il telo, come uno schiavo. Le schiere degli angeli guardavano dall’alto del cielo e gettarono grida di stupore, invece lo spudorato (Giuda) non ne fu commosso, al contrario si voltò contro di lui! Inibiti da timore, gli spiriti di fuoco stupivano quando i loro cori invisibili vedevano l’incomprensibile che si piegava spontaneamente a servire il fango (cioè l’uomo plasmato dalla polvere del suolo). Gabriele diceva in apprensione: <<Angeli santi, compagni miei, guardate, stupitevi! Pietro tende il piede e Colui che è nato da un seno verginale lo prende e lo lava. E non lava soltanto Pietro, ma con lui anche Giuda. Guardate la grande benevolenza del Creatore ed il contegno del Plasmatore nei confronti delle proprie creature. Essi siedono a tavola ed egli sta in piedi; essi si lasciano nutrire ed egli li serve; si lasciano lavare ed egli li asciuga. Ed i piedi fatti di polvere non restano dissolti tra le mani di fuoco!>>”16.
Buona Misericordia a tutti!
Chi volesse leggere un’esegesi più completa del testo, o qualche approfondimento, me li chieda a migliettacarlo@gmail.com.
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Vangelo di Domenica 10 Gennaio: Marco 1, 9-11
Vangelo di Giovedì 7 Gennaio: Giovanni 1, 35-42
Vangelo di Mercoledì 6 Gennaio: Matteo 2, 1-12
Vangelo di Domenica 3 Gennaio: Giovanni 1, 1-18
Vangelo di Venerdì 1 Gennaio: Luca 2, 16-21
Vangelo di Domenica 27 Dicembre: Luca 2, 25-38
Vangelo di Venerdì 25 Dicembre: Luca 2, 1-14
Vangelo di Domenica 20 Dicembre: Luca 1, 26-38
Vangelo di Domenica 13 Dicembre: Giovanni 1, 6-8.19-28
Vangelo di Domenica 6 Dicembre: Marco 1, 1-8
Vangelo di Domenica 29 Novembre: Marco 13, 33-37
Vangelo di Domenica 22 Novembre: Matteo 25, 31-46
Vangelo di Domenica 15 novembre: Matteo 25, 14-30
Vangelo di Domenica 8 Novembre: Matteo 25, 1-13
Vangelo di Domenica 1 Novembre: Luca 6, 17. 20-26/ Matteo 5, 1-12
Vangelo di Domenica 25 Ottobre: Matteo 22, 34-40
Vangelo di Domenica 18 Ottobre: Matteo 22, 15-21
Vangelo di Domenica 10 Ottobre: Matteo 22, 1-14
Vangelo di Domenica 4 Ottobre: Matteo 21, 33-43
Vangelo di Domenica 27 Settembre: Matteo 21, 28-32
Vangelo di Domenica 20 Settembre: Matteo 20, 1-16
Vangelo di Domenica 13 Settembre: Matteo 18, 21-35
Vangelo di Domenica 6 Settembre: Matteo 18, 15-20
Vangelo di Domenica 6 Settembre